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Come funziona il nuovo editor di WP: Gutenberg

Nuovi effetti grafici

Acquista online la guida completa in formato digitale sul sito Kindle Direst publishing di Amazon

L’obiettivo di questo nuovo editor è di rendere l’aggiunta di contenuto con formattazione avanzata in WordPress semplice e piacevole. L’intero articolo è composto da pezzi di contenuto —un po’ simili ai mattoncini LEGO— che puoi muovere e con cui puoi interagire. Muovi il puntatore e noterai i vari blocchi evidenziarsi con bordi e frecce. Premi le frecce per riposizionare velocemente i blocchi, evitando la paura di perdere qualcosa durante il copia e incolla.

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E’ stata approvata la direttiva europea sul copyright

Gli articoli 11 e 13 danno nuove regole al diritto d’autore

Articolo 11

La nuova direttiva sul copyright prova a bilanciare diversamente il rapporto tra le piattaforme online – Google, Facebook e gli altri – e gli editori, che da tempo lamentano di subire uno sfruttamento dei loro contenuti da parte delle prime nei loro servizi e senza un adeguato compenso. Da un lato gli editori accusano i social network e i motori di ricerca di usare i loro contenuti (per esempio con le anteprime degli articoli su Google o nel Newsfeed di Facebook), senza offrire in cambio nessuna forma di compenso; dall’altra parte ci sono le piattaforme che dicono di fare già ampiamente gli interessi degli editori, considerato che il loro traffico arriva in buona parte dalle anteprime pubblicate sui social network o nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca.

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Vendi il tuo libro online con StreetLib

Un paio di anni fa Ingram, il più grande distributore americano, ha lanciato IngramSpark, un servizio di stampa on demand per autori ed editori che non prevede un numero minimo di copie richieste (e quindi richiede un investimento iniziale molto basso) e le mette online su tutti i siti di vendita. Ingram offre un servizio analogo anche agli editori.

È come se in Italia Messaggerie libri, che sulle rese guadagna, offrisse ai sessanta editori che distribuisce la possibilità di stampare solo le copie che vengono effettivamente vendute. (Qui si spiega come funziona Messaggerie).

Una cosa analoga, ma più radicale, esiste da ottobre anche in Italia. Kindle Direct Publishing assomiglia a StreetLib POS   di Street Lib, la più importante piattaforma digitale italiana per l’auto-pubblicazione che, in quanto primo editore italiano di eBook, cerca di potenziare anche la pubblicazione su carta. (Nel 2015 StreetLib ha avuto un fatturato superiore ai 4 milioni di euro).

La sigla POS sta per Print On Sale, proprio per distinguerla dal Print On Demand che è il servizio che stampa i libri e li fornisce all’autore, ma non li mette in vendita online.
La novità di StreetLibPOS è che ha trovato il modo di stampare anche una sola copia, e soltanto quando la vendita avviene davvero, senza per questo rallentare i tempi di consegna. In più, il libro viene messo in vendita su tutti i siti, non solo su Amazon, come fa KDP. Per chi compra cambia poco: acquista il libro online e lo riceve in 5-7 giorni.

Chi vende non ha quasi spese e riceve royalties immensamente più alte di quelle garantite dall’editoria tradizionale, che appunto passa dalla distribuzione: il 60 per cento del prezzo di copertina rispetto al 7-12. Il 10 per cento va a Street Lib e il 30 per cento al sito che vende. Sono più o meno le stesse condizioni offerte da KDP. La stampa naturalmente è in digitale, non in offset che è molto più costosa, ma la qualità è almeno quella di un normale libro tascabile.
Funziona così: dopo avere ricevuto il libro finito, StreetLibPOS realizza e fornisce alla sua tipografia il PDF impaginato pronto per la stampa, e inserisce i dati del titolo nelle varie librerie online. La stampa effettiva avviene solo quando qualcuno ordina il libro di carta.

L’ordine di acquisto si traduce simultaneamente in un ordine di stampa alla tipografia che comprende le indicazioni di imballaggio e le etichette per la spedizione. Una volta stampato il libro viene ritirato dal corriere espresso SDA per l’Italia e UPS per l’estero, per essere consegnato al cliente nei tempi indicati. (O almeno così garantisce il servizio).

Tutto il processo avviene in automatico, anche il giro di fatturazioni: StreetlibPOS fattura il libro ad Amazon (o agli altri venditori online) che a loro volta lo fatturano al cliente finale, contemporaneamente la tipografia fattura a Streetlib il costo di stampa, e l’autore o l’editore fattura a StreetLib la sua parte.
Se il meccanismo di StreetLibPOS, KDP e IngramStar, almeno in teoria, sta in piedi è perché il digitale e l’informatizzazione abbassano radicalmente i costi di stampa. Se può fare guadagnare è perché la quota di mercato della vendita online aumenta. Il costo-copia non cresce che si stampi un solo libro oppure duecento.

Per dare un’idea: stampare da 1 a 500 copie di un libro da 150 pagine in B/N formato A5 può costare all’autore a 2,27 euro a copia, Iva compresa. I costi vengono abbassati da procedure software che permettono alle tipografie di stampare contemporaneamente tanti libri diversi, che poi saranno ricomposti da braccia meccaniche e trasformati nei libri singoli.

Le macchine funzionano come se facessero una tiratura normale, mentre in realtà stanno stampando tanti libri diversi. Anche il costo per spedire un unico libro non incide significativamente, non molto di più almeno di quanto incida la distribuzione tradizionale: in tutta la UE la spedizione di libri gode di tariffe agevolate fino a un certo peso, che corrisponde a circa tre libri. In Italia si chiama Piego di Libri e il costo è, più o meno, quello di un francobollo normale. Se i libri sono di più si passa al corriere.

Per avere un’idea delle dimensioni attuali della cosa, da metà ottobre a fine gennaio StreetLibPOS ha venduto libri di carta per un valore complessivo di oltre 400mila euro. Il prezzo medio dei libri è stato di 10,50 euro. Per ogni copia gli autori hanno ricevuto, sempre in media, 4,8 euro (si toglie il costo di stampa) rispetto all’euro che avrebbero preso da un editore tradizionale. Non sono quasi stati distribuiti nelle librerie fisiche, a meno che alcune non abbiano ordinato i loro libri, ma su tutte le piattaforme di vendita online.

Facebook ha iniziato a segnalare le notizie false

Un segnale di pericolo viene aggiunto alle anteprime verso articoli contenenti le bufale, ma il sistema è ancora lento e imperfetto.

Come annunciato alla fine dello scorso anno, Facebook ha iniziato a segnalare le notizie false – o per lo meno sospette – sul suo social network. La funzione è disponibile per ora negli Stati Uniti, ma in alcuni casi è visibile anche nella versione italiana di Facebook, se il contenuto condiviso è stato identificato e segnalato in quella statunitense.

Per ora il sistema è piuttosto limitato e in fase sperimentale, ma dovrebbe essere esteso nel corso delle prossime settimane. È la prima risposta concreta da parte di Facebook all’ampio dibattito sulle notizie false, che circolano spesso sul social network conquistando molta visibilità, e che secondo alcuni osservatori avrebbero condizionato la campagna elettorale per le presidenziali statunitensi, vinte da Donald Trump.

Un articolo del Seattle Tribune – sito di notizie noto per pubblicare bufale – è stato segnalato come “contestato” (“disputed”) su Facebook a partire da venerdì scorso. Quando viene condiviso il link nella propria sezione Notizie (“News feed”), compare al fondo dell’anteprima un’icona con un segnale di pericolo per avvisare i lettori. L’articolo del Seattle Tribune s’intitola “Si pensa che le recenti fughe di notizie dalla Casa Bianca arrivino direttamente dallo smartphone Android di Trump” e contiene informazioni chiaramente inventate e che non possono essere provate.
trump-fake
Facebook non si occupa direttamente di decidere se un link condiviso sul suo social network rimandi o meno a una notizia falsa, perché non vuole essere responsabile della censura di contenuti, anche se questa è una posizione ambigua che ha attirato diverse critiche. La verifica dei fatti viene quindi eseguita da altre organizzazioni, che hanno sottoscritto una sorta di carta d’intenti condividendo sistemi e soluzioni.

Nel caso della falsa notizia diffusa dal Seattle Tribune, sono stati i siti Snopes e Politifact a controllare l’articolo e a confermare a Facebook la presenza di false informazioni. Oltre all’icona con il segnale di pericolo, sotto l’anteprima sono anche segnalati i siti che hanno fatto la verifica dei fatti, con link verso i loro articoli che smontano la bufala.
Il sistema sembra essere una buona via di mezzo per non rimuovere i contenuti diffusi dagli utenti, evitando quindi censure, e al tempo stesso per mettere in guardia gli altri lettori. Il problema, come hanno segnalato in molti, è che il processo per etichettare come “discussa” una notizia richiede diverso tempo, lasciando quindi a lungo una notizia falsa sul social network senza un’adeguata segnalazione.
Il sistema prevede diversi passaggi: prima la notizia falsa deve essere segnalata da un numero sufficiente di utenti attraverso la funzione “Segnala post” e usando la voce “Si tratta di una notizia falsa”, oppure devono essere gli algoritmi di Facebook ad accorgersene automaticamente; la notizia sospetta viene quindi inviata alle organizzazioni che hanno aderito al servizio gratuito per la verifica dei fatti; infine, almeno due distinte organizzazioni devono smontare la notizia e indicarla come una bufala prima che sia aggiunta l’etichetta.
Questo processo è molto lungo: l’articolo del Seattle Tribune, per esempio, è stato pubblicato il 26 febbraio scorso, ma Snopes l’ha verificato solo il 2 marzo mentre Politifact ci è arrivato il 3 marzo. Per giorni, l’articolo contenente le false informazioni è quindi circolato normalmente su Facebook, con pari dignità rispetto ad articoli da fonti di informazione affidabili e più conosciute.

Il caso del Seattle Tribune è ulteriormente particolare perché è noto ormai da tempo per pubblicare notizie false, molto creative e di ogni tipo. Lo stesso sito, in una pagina tenuta poco in evidenza, si dichiara una “pubblicazione satirica di notizie e di intrattenimento”. Chi legge le anteprime degli articoli su Facebook o ci finisce sopra non può saperlo, considerato che l’indicazione non è presente in tutte le pagine e che il Seattle Tribune utilizza come motto “Informiamo la Nazione”.

Il sistema di definirsi un sito “satirico” o “umoristico” viene usato da buona parte dei siti che diffondono notizie false, nella speranza di evitarsi problemi legali. Come segnala Snopes, il Seattle Tribune fa parte di una rete piuttosto ampia di siti di false notizie, gestiti da una società che si chiama Associated Media Coverage. Organizzazioni di questo tipo creano network di siti e account sui social network per linkare i loro contenuti a vicenda, ottenendo più visibilità, importante per avere visite e clic che si traducono in ricavi grazie alla pubblicità mostrata sulle loro pagine.
Facebook ha annunciato iniziative simili a quella avviata negli Stati Uniti anche in alcuni stati europei, come Francia e Germania, dove quest’anno si terranno le elezioni politiche.

Il sistema sarà sperimentato e progressivamente esteso in altri paesi, ma sempre mantenendo Facebook in una posizione defilata nella verifica dei fatti, che sarà lasciata a terzi. Mark Zuckerberg, il CEO della società, ha sempre sostenuto che Facebook è “una piattaforma” e non una “media company” con responsabilità nella selezione dei contenuti. Questa posizione è comunque diventata sempre più sfumata nei fatti e lo stesso Zuckerberg ha cambiato parzialmente opinione, dopo un primo periodo in cui aveva respinto tutte le accuse sul ruolo di Facebook nel contribuire a fare circolare bufale e notizie false credute vere da milioni di suoi utenti.

Questa notizia è clamorosa (ma falsa): è la bufala bellezza

articolo preso da:  IL MAGAZINE del Sole 24 Ore

scritto da Francesco Costa

Se avete letto i giornali negli ultimi mesi, sapete probabilmente che a febbraio l’Egitto ha invaso la Libia, che il governo Renzi vuole depenalizzare il maltrattamento degli animali e che la corruzione costa all’Italia ben sessanta miliardi di euro ogni anno. Peccato che niente di tutto questo sia vero.

Così come non è vero che i tifosi del Feyenoord abbiano stampato delle magliette con scritto “Vi accoltelliamo” rivolto ai romanisti, che nel video di un’ecografia pubblicato online si veda un feto battere le mani a tempo di musica, che secondo un’equazione matematica il 19 gennaio sia il giorno più triste dell’anno e che François Hollande abbia operato in Francia un gigantesco taglio ai costi della politica.

Gli errori capitano a tutti, ma la diffusione di notizie imprecise o apertamente false sui media ormai è un fenomeno quotidiano: la più grande patologia del nostro tempo tra quelle di cui i giornali non parlano mai. Le ragioni di questo fenomeno si possono intuire con facilità, e sono discusse quotidianamente anche tra gli addetti ai lavori a mensa o durante i vari festival del giornalismo: la verifica delle fonti superficiale se non inesistente, la ricerca di visibilità e lettori sparandola grossa, l’interesse smodato del pubblico per notizie assurde, morbose o in grado di suscitare reazioni emotive, la necessità di fare i conti con sempre maggiori richieste e minori risorse in tempi di tagli e crisi del settore.

Le smentite di queste bufale, quando e se ci sono, non trovano mai la stessa enfatica pubblicazione e virale diffusione della balla originaria, che intanto è tracimata e continua a vivere di vita propria: diventa un argomento di discussione nei talk show e davanti alla macchinetta del caffè, mentre sui giornali magari è stata a malapena derubricata a “giallo”.

La prima conseguenza è la perdita di credibilità dei giornali e di chi li fa: secondo un recente studio Edelman – che non ha sorpreso nessuno – la maggioranza assoluta degli italiani dichiara di non fidarsi dei media (un paradosso interessante, visto che la pubblicazione di queste “notizie” è spesso giustificata con l’aria che tira e con la necessità di attrarre lettori anche a costo di usare qualche trucco del mestiere).

Ma c’è una seconda conseguenza ancora più inquietante e pericolosa: oggi, tra le persone – le persone normali, non i fuori di testa che credono ai complotti sull’11 settembre e ai rettiliani – esiste di fatto una realtà parallela. Se l’unica democrazia davvero compiuta è una democrazia informata, le notizie false indeboliscono la democrazia: costruiscono paradigmi culturali e creano percezioni che si riflettono nella vita di tutti i giorni, dalla scelta del partito da votare a quella dell’università da frequentare.

Nella realtà parallela delle notizie false, per esempio, durante gli anni peggiori della crisi economica molti hanno descritto l’Islanda come il modello da seguire: smettere di pagare il debito e disobbedire alle crudeltà suggerite dalla troika. Mentre le redazioni dei talk show mandavano inviati in Islanda per raccontare questa storiella nell’intervallo tra una lite e l’altra, la realtà faceva il suo corso: l’Islanda pagava il suo debito, addirittura nazionalizzava tre grandi banche pur di evitarne il fallimento e riceveva con gratitudine un salvifico prestito del Fondo monetario internazionale; ma qualche partito cavalcava la falsa storia islandese criticando quelli che non trovavano praticabile quella strada inesistente.

Tra le storie di questo genere, però, la più esemplare è quella sul calcolo del costo della corruzione in Italia. La cifra abnorme che circola da anni – sessanta miliardi di euro – viene ripetuta allo sfinimento durante comizi e talk show e a un certo punto è stata rilanciata persino dalla Commissione europea e dalla Corte dei Conti, ma è falsa. Circola dal 2004, viene da un calcolo grossolano operato sulla vaga stima della Banca mondiale per cui la corruzione incide per il 3-4 per cento del Pil mondiale e soltanto l’anno scorso, dopo averla riproposta innumerevoli volte, i giornali hanno cominciato a diffidarne.

Questo però non ha frenato la sua diffusione, perché i sessanta miliardi sono ormai un pezzo della realtà parallela: la presidente della Camera l’ha citata qualche mese fa in un’occasione formale, persino il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, l’ha menzionata maldestramente nel suo nuovo libro. Nel frattempo, la percezione della corruzione nelle istituzioni secondo gli italiani sfiora il 90 per cento (!), dice l’Ocse; e secondo i dati di Transparency International gli italiani credono che in Italia ci sia più corruzione che a Cuba o in Ruanda.

Conseguenze della realtà parallela: davanti a una situazione del genere, non c’è legge anticorruzione che possa essere considerata sufficiente. Nessuno vuole minimizzare l’impatto di un problema grave come la corruzione, ma se le buone intenzioni sono un criterio allora vale tutto: invece che sessanta miliardi facciamo cento, o mille. Per non parlare di tutto il ricchissimo filone delle bufale collegate all’avanzata dell’Isis in Medio Oriente: i carichi di arance infettati col virus dell’Hiv, il terrorista che parla italiano in un video, la guerra batteriologica imminente. «L’Isis si prepara ad attaccarci con il virus dell’ebola», ha scritto un grande giornale italiano in un articolo privo di fonti affidabili che è ancora disponibile online.

Chi vuole fare soldi ha capito da tempo come sfruttare la realtà parallela delle bufale. Una popolare compagnia aerea low cost ha trovato da anni il modo di far parlare di sé senza spendere un euro: diffondere annunci assurdi e improbabili che vengono puntualmente ripresi e rilanciati da redazioni assetate di strano-ma-vero. Negli anni abbiamo letto dell’imminente arrivo di tariffe più alte per i bambini rumorosi e per i ciccioni, di prossime introduzioni di voli da dieci euro per gli Stati Uniti, di aerei con i posti in piedi o con i bagni a pagamento o con un solo pilota (ho la sensazione che quest’ultima non sarà più riproposta).

È una specie di cinica complicità: i giornali racimolano un po’ di clic con notizie false che attirano molto interesse, la compagnia aerea si fa pubblicità gratis.

Poi ci sono i professionisti: quelli che hanno fatto delle balle un business. Da qualche anno ci sono siti internet mascherati da testate giornalistiche – persino nei nomi, che ricalcano quelli di famose testate: La Rebubblica o Il Solo 24 Ore – che diffondono notizie false ma verosimili, inventate ma potenzialmente credibili, e con un forte interesse popolare: la morte di un personaggio famoso che invece è vivo, l’imminente ritorno della leva militare obbligatoria, la decisione di destinare case popolari e abbondanti sussidi agli immigrati irregolari.

Alcuni si mascherano da siti satirici, ma di comico hanno poco: titoli come «Arrestato Matteo Salvini», «Vesuvio, esplosione imminente?» o «Tracce di feci nei gelati», per esempio, sono fatti per attirare clic e circolare tra utenti creduloni, ingenui o inesperti. È esattamente quello che succede. Ogni articolo viene letto potenzialmente decine di migliaia di volte, grazie alla diffusione istantanea e virale che questo genere di notizie innesca sui social network: e gli annunci pubblicitari fanno sì che quelle visite diventino soldi.

Catena Umana, per esempio, è il sito che qualche mese fa ha pubblicato la notizia falsa secondo cui Greta Ramelli e Vanessa Marzullo – le due cooperanti italiane sequestrate in Siria – avevano detto ai pm di Roma di aver fatto “sesso consenziente” con i loro rapitori durante la prigionia: una bufala di cui si è parlato molto anche perché Maurizio Gasparri ha deciso di rilanciarla sui social network. Vincenzo Todaro, che vive a Parma e gestisce il sito – lo definisce «di informazione ma non di giornalismo» – dice che il loro metodo è prendere una notizia vera, inserire qualche dettaglio inventato e abbinare un titolo forte e l’immagine giusta.

«Nel caso di Greta e Vanessa abbiamo preso un articolo esistente online e abbiamo aggiunto praticamente solo cinque parole, ma quelle cinque parole ci hanno fatto fare il giro del web». Quando quella notizia falsa è diventata un piccolo caso, gli annunci pubblicitari hanno fatto guadagnare al sito e ai suoi gestori «anche 1.000-2.000 euro al giorno». Catena Umana pubblica moltissimi articoli ogni giorno, «nei periodi più intensi anche uno ogni quarto d’ora». Non tutti generano quegli introiti, ma fate voi i conti.

Quello che rimane, alla fine della fiera, è un circolo vizioso: la perdita di credibilità e autorevolezza dei media tradizionali rende sempre più persone sensibili ai richiami della cosiddetta “controinformazione” e dei siti internet che promettono di raccontare “quello che gli altri non dicono”; il meccanismo autogratificante della condivisione dei contenuti sui social network e la paranoia complottista amplificano la diffusione delle bufale pubblicate da questi siti.

Queste bufale a loro volta diventano leggende metropolitane, oppure vengono rilanciate da un vicepresidente del Senato e diventano mainstream; i media tradizionali affrontano questa nuova concorrenza con l’acqua alla gola e per tentare di tenere il passo indeboliscono – invece che rafforzare – controlli, verifiche, attenzione, sobrietà, scetticismo; il tutto fa allargare la realtà parallela fino a farla diventare l’unica realtà, il panorama invisibile, come l’acqua dei pesci rossi di David Foster Wallace. Siccome il mondo in cui viviamo non ci piace, abbiamo deciso di inventarcene uno peggiore.

Le bufale sono un business

E anche un problema per la democrazia, scrive Francesco Costa su IL: leggerle e diffonderle fa guadagnare soldi a chi le scrive, e ormai parecchi lo fanno per mestiere.
Francesco Costa ha raccolto sull’ultimo numero di IL alcune notizie false uscite negli ultimi mesi sui giornali italiani, spiegando in che modo riescano ad alterare e indebolire la percezione delle cose che accadono attorno a noi.

Costa ha spiegato in particolare il circolo vizioso per cui più sono «assurde, morbose o in grado di suscitare reazioni emotive» e più risultano attraenti per i giornali tradizionali: che da alcuni anni si trovano «con l’acqua alla gola per tentare di tenere il passo» di siti che diffondono notizie false unicamente per fare soldi, a loro volta alimentati da una richiesta sempre più crescente di informazione non tradizionale, causata proprio dalla scarsa credibilità dei giornali. Costa ha anche contattato il gestore di Catena Umana, il sito che ha diffuso la bufala che le due cooperanti italiane rapite in Siria avessero avuto rapporti sessuali coi propri rapitori, il quale ha parlato dei notevoli ricavi pubblicitari del proprio sito in relazione a quell’articolo.
Se avete letto i giornali negli ultimi mesi, sapete probabilmente che a febbraio l’Egitto ha invaso la Libia, che il governo Renzi vuole depenalizzare il maltrattamento degli animali e che la corruzione costa all’Italia ben sessanta miliardi di euro ogni anno. Peccato che niente di tutto questo sia vero.
Così come non è vero che i tifosi del Feyenoord abbiano stampato delle magliette con scritto “Vi accoltelliamo” rivolto ai romanisti, che nel video di un’ecografia pubblicato online si veda un feto battere le mani a tempo di musica, che secondo un’equazione matematica il 19 gennaio sia il giorno più triste dell’anno e che François Hollande abbia operato in Francia un gigantesco taglio ai costi della politica.

Gli errori capitano a tutti, ma la diffusione di notizie imprecise o apertamente false sui media ormai è un fenomeno quotidiano: la più grande patologia del nostro tempo tra quelle di cui i giornali non parlano mai. Le ragioni di questo fenomeno si possono intuire con facilità, e sono discusse quotidianamente anche tra gli addetti ai lavori a mensa o durante i vari festival del giornalismo: la verifica delle fonti superficiale se non inesistente, la ricerca di visibilità e lettori sparandola grossa, l’interesse smodato del pubblico per notizie assurde, morbose o in grado di suscitare reazioni emotive, la necessità di fare i conti con sempre maggiori richieste e minori risorse in tempi di tagli e crisi del settore.
Le smentite di queste bufale, quando e se ci sono, non trovano mai la stessa enfatica pubblicazione e virale diffusione della balla originaria, che intanto è tracimata e continua a vivere di vita propria: diventa un argomento di discussione nei talk show e davanti alla macchinetta del caffè, mentre sui giornali magari è stata a malapena derubricata a “giallo”. La prima conseguenza è la perdita di credibilità dei giornali e di chi li fa: secondo un recente studio Edelman – che non ha sorpreso nessuno – la maggioranza assoluta degli italiani dichiara di non fidarsi dei media (un paradosso interessante, visto che la pubblicazione di queste “notizie” è spesso giustificata con l’aria che tira e con la necessità di attrarre lettori anche a costo di usare qualche trucco del mestiere).
(Continua a leggere sul sito del Sole 24 Ore)

Tim Berners-Lee, l’uomo che ha cambiato le nostre vite

Tim Berners-Lee, che ha cambiato le vite
da un articolo di Luca Sofri per Ilpost

C’è qualcuno, una persona vivente, al mondo, che ha cambiato le vite di tutti? Che se non ci fosse stato lui oggi vivremmo diversamente?
Probabilmente tendiamo a pensare di no, facciamo un giro mentale dei nomi conosciuti, e sì, ci sono persone importanti, o che tutti conoscono, o che hanno avuto grosse influenze in determinati campi, o che hanno fatto cose con estese implicazioni. Ma se non ci fossero state, avremmo vissuto in altro modo, tutti? Facciamo il giro dei nomi conosciuti e probabilmente ci rispondiamo di no.
È un pomeriggio milanese di luce invernale, nitida e bianca, che entra dalle grandi vetrate di questi loft postindustriali alla periferia nord della città. Tutto molto nudo e bianco, come da estetica di startup e aziende di comunicazione. Luminoso. Sono seduto su una sedia bianca a un tavolo bianco appoggiato su un pavimento bianco, e ho davanti a me una persona che se non ci fosse stata, probabilmente vivremmo in un altro modo. Se non tutti, tanti. O tutti noi, quelli che vivono come noi in queste parti di mondo.

E non è un nome conosciuto, in effetti: cioè, lo è molto in certi uffici bianchi e luminosi di startup, nei posti dove si vive il cambiamento di queste parti di mondo, tra le persone che seguono il cambiamento e che sono informate su cosa ci sia dietro certe formule come “http” o che sanno dire senza esitazioni perché “internet” e “il web” siano due cose diverse. Dovessi tirare a indovinare, un italiano su cento sa chi sia Tim Berners-Lee. Degli altri 99, dicono le statistiche, 50 hanno a che fare direttamente con la cosa che ha inventato lui, il world wide web. Gli altri 49, indirettamente, direi.
Il “web”, più estesamente “il world wide web”, è per molti che lo usano una condizione naturale, data per scontata. Come la lingua che parliamo, come le strade su cui ci muoviamo, come ci si alza la mattina e fuori c’è la luce, e si accende il computer e ci sono i siti, tutti raggiungibili e accessibili, tutti allo stesso modo e con meccanismi semplici e familiari, liberi. Sono venuti da sé, pensiamo, una volta creata internet facendo passare dei dati dalle linee del telefono.
Invece non era scontato per niente: azzardando un paragone riduttivo, in termini di efficacia e usabilità il web sta a internet come le strade alla ruota.
TBL, come spesso lo chiamano i più riconoscenti, cominciò a progettare e creare nel 1989 questo oggi enorme sistema che diamo per scontato: aveva 34 anni, aveva studiato fisica, lavorava al CERN. Si devono a lui, e a diverse collaborazioni, il WWW e l’HTML, per esempio.
Oggi è a Milano perché è stato scelto da TIM come testimonial per la sua campagna istituzionale che parte a gennaio: tra l’altro, grazie al suo recente “rebranding” (Telecom ha deciso di chiamare TIM sia le sue operazioni mobili che fisse) il principale fornitore di accesso al web in Italia ha finito per chiamarsi come l’inventore del web, e la scelta raddoppia il suo senso.
In questo posto bianco e luminoso, molto connesso, tra una ripresa e una riunione, TBL si interrompe a chiacchierare con alcuni giornalisti e blogger avvertiti della sua presenza. Ha un completo scuro e una camicia bianca, un po’ leggero per la giornata fredda, molto londinese.

Mi domando quanto sia ingombrante il suo ruolo, quella invenzione di 25 anni fa, se si senta come quelle band che hanno fatto un grandissimo disco a inizio carriera e poi altre cose buone e popolari (TBL ha tuttora ruoli molto importanti negli organismi che coordinano e garantiscono il libero funzionamento del web), e magari hanno un disco nuovo da far sentire, e intanto tutti chiedono loro ancora di quel primo e di come influì sulla storia del rock. Chissà se i suoi figli spiegano agli amici che il padre è “l’inventore del web”. “No, non credo”, mi dice pazientemente con un sorriso: però si vede che un po’ lo annoia, la questione. Non gli interessa.
Gli fanno altre domande, più attuali: la sicurezza, Parigi, Facebook. Risponde muovendo molto le mani e spostando il busto dalla sedia al tavolo e viceversa: strizza le palpebre, inarca le sopracciglia, corruga la fronte stempiata. Di profilo somiglia un po’ a Robert Duvall, anche se più affilato. Ha un accento inglese complicato da qualche incertezza, un abbozzo occasionale di balbuzie, ma parla molto speditamente. Quando gli facciamo domande in italiano avvicina la testa a quella dell’interprete, con una specie di dolcezza complice. Ha la gentilezza di dire spesso “questa è una domanda interessante”, da navigato intervistato. Ma pare rassicurato anche quando gli facciamo una domanda particolarmente scema, come se lo rilassasse impostare una risposta facile, rodata, senza nessun segno di delusione o stupore. Quando guarda chi gli sta parlando inclina la testa un po’ da una parte nella sua direzione, come per capire meglio.

Torno sui figli, gli chiedo se è un genitore preoccupato del rapporto dei suoi figli con internet, come tutti i genitori. Mi risponde come tutti i genitori equilibrati – “ci vuole prudenza, internet è l’umanità, ha il buono e cattivo, io sono un ottimista e vedo più il buono” – e non come corresponsabile. E allora lo domando a lui, se pensa di avere cambiato le nostre vite, il mondo come lo viviamo. Se non avesse “inventato il web”, lo avrebbe fatto qualcun altro e oggi useremmo internet allo stesso modo? O saremmo andati da un’altra parte?
“È una cosa a cui ho pensato”, risponde, incorniciato nella luce bianca della vetrata alle sue spalle, appoggiando i gomiti dalla mia parte del tavolo. E spiega che non lo sa, ma crede che se non fosse successo la gestione e i funzionamenti di internet non sarebbero stati organizzati in un sistema universale, e universalmente libero, accessibile e condiviso, ma che singole aziende e istituzioni – come provò a fare AOL – avrebbero costruito sistemi e organizzazioni dell’uso di internet propri e diversi, con differenti sistemi di accesso, linguaggi, offerte: “walled gardens”, molto legati alle nazioni in cui avrebbero operato, nazioni che sarebbero state responsabili e intermediarie di tutti i coordinamenti e relazioni globali tra le diverse reti.

Tim Berners Lee: Tre cose da cambiare per salvare Internet

Da un articolo del Post

Tre cose da cambiare per salvare Internet elencate da Tim Berners-Lee, l’inventore del world wide web: ha parlato di privacy, notizie false e campagne politiche, proponendo qualche soluzione

Il 12 marzo 1989 (28 anni fa oggi) Tim Berners-Lee, che aveva 34 anni e lavorava al CERN di Ginevra, descrisse per la prima volta un progetto su cui stava lavorando da qualche tempo. Partiva dalla premessa secondo cui al CERN c’erano tanti dati difficili da gestire, e proponeva una soluzione per la gestione condivisa delle informazioni. Anni più tardi quel progetto sarebbe poi diventato il world wide web, cioè sintetizzando moltissimo il principale servizio di Internet grazie gli utenti possono condividere informazioni fra di loro (“navigare”). Il web – che fino al 1991 esistette solo come progetto e “prototipo” a disposizione di alcune persone, soprattutto dipendenti del CERN – permise a internet di diventare accessibile, comodo, popolarissimo: insomma, le caratteristiche principali che possiede ancora oggi.
Berners-Lee ora si occupa del World Wide Web Consortium (W3C) – l’organizzazione non governativa con il compito di promuovere internet, di cui è fondatore e presidente – e della World Wide Web Foundation, l’associazione fondata nel 2009 con lo scopo di rendere internet aperto e accessibile ovunque nel mondo. Gira il mondo parlando della sua invenzione (qui lo ha fatto con Luca Sofri) e ogni tanto fa il punto sul web e più in generale su Internet, e quello che ci facciamo. Oggi il Guardian ha pubblicato un articolo in cui Berners-Lee prova a fare il punto della situazione e, in tre punti, dice cosa sta andando per il verso sbagliato, e andrebbe cambiato. Berners-Lee inizia scrivendo:
Immaginai il web come una piattaforma aperta che avrebbe permesso a chiunque, ovunque, di condividere informazioni, avere accesso a nuove opportunità e collaborare superando barriere culturali e geografiche. Per molti versi, il web ha fatto quello che mi ero immaginato, anche se mantenerlo aperto è stata una lotta costante. Ma negli ultimi 12 mesi, ho iniziato a preoccuparmi sempre più di tre nuovi trend, che secondo me dovremmo fermare per poter permettere al web di raggiungere il suo vero potenziale di strumento che possa servire all’umanità.
1. «Abbiamo perso il controllo dei nostri dati personali»
Berners-Lee scrive che ormai molti siti hanno un modello di business basato sull’offerta di contenuti gratuiti in cambio di dati personali sugli utenti che scelgono di andarci. Critica «i lunghi e confusi termini» dei contratti per il consenso al trattamento dei dati personali ma scrive anche che in fondo è una nostra scelta, e che «fondamentalmente non ci dispiace che alcuni dati su di noi vengano raccolti, se in cambio abbiamo servizi gratuiti». Secondo Berners-Lee c’è però un problema: così facendo «perdiamo i benefici che potrebbe avere se avessimo controllo diretto sui nostri dati, e su quando condividerli e con chi». Berners-Lee cita anche problemi maggiori che riguardano – specialmente nei «regimi repressivi» – l’uso di Internet (e dei dati che attraverso Internet si raccolgono) per arrestare o controllare oppositori di vario genere. «Ma anche nei paesi dove pensiamo che i governi vogliano fare solo l’interesse dei cittadini» secondo Berners-Lee si è superata la misura: e l’eccessivo controllo finisce per limitare la libertà d’espressione e di scelta degli utenti.
– Leggi anche: Avremo sempre meno privacy
2. «La disinformazione circola troppo facilmente»
«Oggi la maggior parte delle persone si informa sul web attraverso una manciata di siti, di social network e di motori di ricerca. Questi siti guadagnano soldi se clicchiamo su certi link che ci mostrano. E scelgono cosa mostrarci in base ad algoritmi che si basano sui nostri dati personali, che vengono continuamente esaminati». Il fatto, spiega Berners-Lee, è che le notizie false, le bufale o se preferite le fake news sono «sorprendenti, scioccanti, fatte per farsi notare e per spargersi come le fiamme di un incendio: […] e attraverso la scienza dei dati e eserciti di bot, queste cattive intenzioni possono fregare il sistema e spargere disinformazione, con fini economici o politici».
Non c’è ovviamente nulla di nuovo in questo punto: è però un’efficace sintesi di tanti discorsi, spesso più complessi, e un emblematica presa di posizione di uno che se ne intente molto su un fenomeno particolarmente discusso in questi ultimi mesi.
3. La pubblicità politica online ha bisogno di trasparenza e comprensione
Le campagne politiche online stanno diventando quella che Berners-Lee definisce una «sofisticata industria» e il motivo è quello alla base del precedente punto: se quasi tutti si informano sul web, è lì che quasi tutti si formano le loro convinzioni politiche, ed è lì che bisogna convincerli a votare un certo partito o politico. Ora, scrive Berners-Lee, «le campagne politiche stanno costruendo pubblicità personalizzate, dirette specificamente su gruppi di utenti». Ha ragione, per molti analisti politici ed esperti di campagne elettorali, il futuro della propaganda politica è questo. Berners-Lee però fa notare: «Le pubblicità targhettizzate permettono a una campagna politica di dire cose completamente diverse, anche possibilmente in conflitto tra loro, a gruppi diversi. È una cosa democratica?».
Ok, e quindi?
Berners-Lee ha poi scritto: «Sono problemi complicati, e le soluzioni non saranno semplici», proponendo però qualche possibile soluzione:
Dobbiamo collaborare con le aziende del web per trovare un equilibro che rimetta nelle mani delle persone il controllo di una mole accettabile di dati che le riguardano: fa parte di questo anche lo sviluppo di nuove tecnologie come i “data pods” personali [sistemi per decidere, di caso in caso, quali dati condividere]. [Dobbiamo anche] esplorare modelli alternativi per il guadagno da parte dei siti, come per esempio gli abbonamenti e i micropagamenti.
Dobbiamo lottare contro gli eccessi governativi nelle leggi sulla sorveglianza, anche andando in tribunale, se necessario. Dobbiamo respingere la disinformazione incoraggiando i mega-portali come Google e Facebook a proseguire nei loro sforzi per affrontare il problema, evitando allo stesso tempo di creare un organo centrale che possa decidere cosa è vero è cosa non lo è. Abbiamo bisogno di algoritmi più trasparenti, per capire come vengono prese importanti decisioni che riguardano le nostre vite, e forse seguire anche un insieme di principi comuni. Dobbiamo chiudere il più presto possibile “il punto cieco di internet” nella regolamentazione delle campagne politiche.

Chi fa business rivendendo i nostri dati personali?

Esiste un mercato fiorente basato sulla compravendita dei database di clienti

di una compagnia telefonica, per esempio,ma anche di dati raccolti da altre fonti: Google o Facebook, (vedi il mio post in merito)  sono solo alcuni dei principali attori. Computer potentissimi elaborano ininterrottamente con algoritmi dedicati (procedure di calcolo standard) i dati raccolti, li abbinano ad altri provenienti dalla stessa fonte e li vendono a compagnie per la realizzazione di campagne pubblicitarie mirate.

Utilizziamo il calcolatore online che qualche giorno fa il Financial Times ha pubblicato per scoprire il valore commerciale dei nostri dati personali.

Scoprirete che fare certe professioni, essere in stato interessante oppure essere milionari ne aumenta di molto il valore

clicca qui per calcolare il valore dei tuoi dati personali:

Facendo un esempio pratico: vi siete mai chiesti come mai inseguito ad una vostra ricerca su internet siete stati bersagliati nelle ore e giorni successivi da offerte pubblicitarie proprio relative a quel soggetto?

Provate a cercare un hotel via Google ora per una ipotetica vacanza in montagna e poi ditemi quante promozioni di hotel in trentino troverete nelle pagine visitate successivamente. Si va bè è una noia, pensate, ma non è proprio solo così semplice, vi siete chiesti cosa c’è dietro? Dietro a questa, che sembra una semplice seccatura, esiste un commercio gigantesco e non ancora ben regolamentato dei dati che noi rilasciamo navigando sul web.

Il problema importante è che la raccolta di tutti questi dati possa degenerare arrivando all’abuso delle informazioni personali raccolte (soprattutto quando ci sono di mezzo i minori) fino al rischio di discriminazione di determinate categorie di persone, magari portatrici di handicap fisici o “semplicemente” malate.

Così ha detto il Garante della Privacy, Antonello Soro, in sede di relazione alla Camera
“i colossi di Internet diventano sempre più intermediari esclusivi tra produttori e consumatori… Il potere di questi soggetti non può essere ignorato… Non dovremmo permettere che i dati personali, che hanno assunto un valore enorme in chiave predittiva e strategica, diventino di proprietà di chi li raccoglie

Il nuovo “petrolio” tratto dal Sole 24 Ore

Facciamo l’esempio di Acxiom, colosso del brokeraggio dei dati con un fatturato da 1,1 miliardi di dollari, un database di 700 milioni di persone e un portfolio di 7 mila clienti – si prende la briga di aggregare e trasformare in bene rivendibile sul mercato.

C’è, questo lo scenario, un’industria multimiliardaria che si muove nell’ombra (perchè non regolamentata) e che cresce ogni giorno proporzionalmente alla fame di domanda di maggiori informazioni sul conto dei propri clienti da parte delle multinazionali. Che grazie a questi dati definiscono le strategie per influenzare i comportamenti d’acquisto delle persone, i cui dati di consumo sono stati definiti nel rapporto 2011 del World Economic Forum report come “il nuovo petrolio”.

 Cito uno slogan proveniente direttamente dal sito della acxiom

“Great marketing creates real connections with real people. Learn how identity resolution helps you recognize, understand, and reach consumers everywhere they are today – and will be tomorrow.”
Tradotto in italiano suona così:
Il grande marketing crea collegamenti reali con le persone reali. Impara come l’analisi delle identità ti aiuta a riconoscere, capire, e raggiungere i consumatori in qualsiasi parte del mondo siano oggi – e saranno domani.

Qui puoi vedere direttamente dal sito del Nasdaq quali sono le aziende che operano nel settore della compravendita dati personali, comune ad Acxiom  e farti un’idea del loro giro di affari in milioni di dollari.