Nextdoor è una app in controtendenza che io apprezzo molto, infatti non mira ai grandi numeri ed alla comunicazione di massa, questa app dai “modi gentili” infatti contribuisce a ricostruire il tessuto sociale che oggi tende a dissolversi, partendo dalle comunità di quartiere o di isolato.
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Una rete sociale (in lingua inglese social network) consiste in un qualsiasi gruppo di individui connessi tra loro da diversi legami sociali. Per gli esseri umani i legami vanno dalla conoscenza casuale, ai rapporti di lavoro, ai vincoli familiari. Le reti sociali sono spesso usate come base di studi interculturali in sociologia, in antropologia, in etologia.
L’analisi delle reti sociali, ovvero la mappatura e la misurazione delle reti sociali, può essere condotta con un formalismo matematico usando la teoria dei grafi. In generale, il corpus teorico ed i modelli usati per lo studio delle reti sociali sono compresi nella cosiddetta social network analysis.
La ricerca condotta nell’ambito di diversi approcci disciplinari ha evidenziato come le reti sociali operino a più livelli (dalle famiglie alle comunità nazionali) e svolgano un ruolo cruciale nel determinare le modalità di risoluzione di problemi e i sistemi di gestione delle organizzazioni, nonché le possibilità dei singoli individui di raggiungere i propri obiettivi.
E’ stata approvata la direttiva europea sul copyright
Gli articoli 11 e 13 danno nuove regole al diritto d’autore
Articolo 11
La nuova direttiva sul copyright prova a bilanciare diversamente il rapporto tra le piattaforme online – Google, Facebook e gli altri – e gli editori, che da tempo lamentano di subire uno sfruttamento dei loro contenuti da parte delle prime nei loro servizi e senza un adeguato compenso. Da un lato gli editori accusano i social network e i motori di ricerca di usare i loro contenuti (per esempio con le anteprime degli articoli su Google o nel Newsfeed di Facebook), senza offrire in cambio nessuna forma di compenso; dall’altra parte ci sono le piattaforme che dicono di fare già ampiamente gli interessi degli editori, considerato che il loro traffico arriva in buona parte dalle anteprime pubblicate sui social network o nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca.
Continua la lettura di E’ stata approvata la direttiva europea sul copyrightIl capo dell’antitrust europeo minaccia di dividere Google
Intervista a: The European Commissioner for Competition Margrethe Vestager al Daily Telegraph: tradotto ed adattato.
L’Unione europea nasconde “gravi sospetti” sul dominio di Google e non ha escluso la possibilità di scioglierlo, ha avvertito il commissario per la concorrenza.
Margrethe Vestager ha dichiarato a The Telegraph che la minaccia di dividere il gigante di internet in società più piccole deve essere mantenuta.
Nel giugno dello scorso anno, il commissario danese ha colpito Google con una multa da record di 2,1 miliardi di sterline – a cui la società si appella contro – per aver dato il proprio servizio di comparazione agli acquisti un vantaggio illegale nei risultati di ricerca.
Google ora affronta altri due casi separati.
La signora Vestager ha ammesso che i suoi funzionari avevano “gravi sospetti” per l’azienda, che detiene una quota del 91,5% del mercato dei motori di ricerca in Europa. “Penso sia importante mantenere questa domanda aperta e all’ordine del giorno”, ha detto alla domanda se l’unica soluzione alla sua posizione dominante fosse quella di interrompere la società. “Non siamo ancora arrivati ma è importante mantenere un occhio sveglio.”
Ha avvertito che il motore di ricerca potrebbe diventare così grande da essere indispensabile per le imprese e l’economia.
L’avvertimento del commissario giunge in un momento di analisi critica senza precedenti sul comportamento dei giganti tecnologici americani come Google e Facebook. Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, è stato costretto la scorsa settimana a scusarsi per una violazione dei dati che ha colpito 50 milioni di utenti. Si presume che Cambridge Analytica, la società di analisi dei dati, abbia utilizzato i dati mentre lavorava per la campagna Trump.
La scorsa settimana, i capi di Stato e di governo dell’UE hanno concordato una dichiarazione congiunta che chiedeva “reti sociali” per garantire “la piena protezione della privacy e dei dati personali dei cittadini”. Lo scandalo ha incoraggiato coloro che sostengono che le società sono dominanti come Standard Oil e AT & T al tempo dei monopoli sul petrolio.
Entrambe le società sono state suddivise dopo essere cadute in fallo con la legislazione antitrust.
La signora Vestager, che è stata recentemente etichettata come “l’eurocrate che fa tremare l’America corporativa”, si è guadagnata il plauso a Bruxelles per la sua disponibilità a combattere contro aziende come Google, Apple e Amazon. Mrs Vestager durante una conferenza stampa del 2016 negli Stati Uniti, quando ha negato di aver preso di mira le compagnie americane dichiaro: “Non c’è il divieto di successo in Europa”.
Quando si diventa dominanti si ha la speciale responsabilità di non distruggere la competizione già indebolita.
“Abbiamo dimostrato il loro dominio nella ricerca e abbiamo scoperto che hanno abusato di questa posizione dominante per promuovere se stessi e ridurre i concorrenti.” In qualità di capo del dipartimento antitrust della Commissione europea, la signora Vestager ha il potere di imporre ammende miliardarie alle maggiori compagnie mondiali .
Da quando ha iniziato il lavoro nel 2014, ha ordinato all’Irlanda di recuperare 11 miliardi di sterline da Apple e dal Lussemburgo 218 milioni di sterline da Amazon in tasse arretrate dopo aver scoperto che le erano stati concessi benefici fiscali illegali.
Google ha presentato un piano di azione per rimediare al comportamento anticoncorrenziale, che i funzionari antitrust stanno ancora esaminando, ma il mese scorso un gruppo di avversari di Google ha dichiarato che le sue azioni erano “sostanzialmente prive di significato” senza rompere il gigante di internet.
Negli altri casi, ha detto che “quello che diciamo, dovrà essere verificato in tribunale”, senza dare spazio alle teorie del complotto.
La signora Vestager ha respinto ogni suggerimento che si rivolgesse in particolare alle società tecnologiche “, aggiungendo:” Penso che i motivi del comportamento illegale siano gli stessi per qualsiasi tipo di azienda. Denaro, paura, potere – questi motivi sono stati gli stessi per secoli “.
Ha detto anche che è anche difficile usare la vecchia regolarementazione per controllare alcune di queste nuove società. “In Europa c’è la disponibilità ad ammettere di essere stati sorpresi”, ha detto la signora Vestager, “ma siamo anche pronti a dare nuove regole, se necessario”.
Gli Stati Uniti raccoglieranno dati dai social media prima di rilasciare i permessi di ingresso
L’amministrazione Trump prevede di richiedere agli immigrati che si candidano per venire negli Stati Uniti di presentare cinque anni della loro eventuale presenza sui social media.
La mossa segue il crescente impegno dell’amministrazione sul “controllo accurato” rivolto agli aspiranti immigrati negli Stati Uniti, ed è un’estensione degli sforzi compiuti dalla precedente amministrazione per controllare più da vicino i social media dopo l’attacco terroristico di San Bernardino.
Come vettori dei social media saranno considerati i telefoni, possibili cause della somministrazione del divieto di viaggio.
L’amministrazione si aspetta che la mossa colpisca quasi 15 milioni di aspiranti immigrati negli Stati Uniti. Ciò includerebbe i candidati per la residenza permanente legale.
Ci sono esenzioni per visti diplomatici e ufficiali, ha detto il Dipartimento di Stato. La decisione non entrerà in vigore immediatamente – la pubblicazione del cambiamento previsto per le domande di visto di venerdì avvierà un conto alla rovescia di 60 giorni per consentire al pubblico di commentare la mossa.
I critici ostacolano queste iniziative, tra gli sforzi più ampi da parte dell’amministrazione: non solo sono invasivi per motivi di privacy, ma limitano troppo’immigrazione legale negli Stati Uniti rallentando il processo, rendendolo più oneroso e rendendo più difficile l’accettazione di un visto.
Gli Stati Uniti aumentano il controllo e riprende il trattamento dei rifugiati dai paesi “ad alto rischio” Le autorità federali sostengono che le mosse sono necessarie per la sicurezza nazionale. Oltre a richiedere i cinque anni di storia dei social media, l’applicazione richiederà anche numeri di telefono precedenti, indirizzi e-mail, precedenti violazioni dell’immigrazione e qualsiasi storia familiare di coinvolgimento in attività terroristiche, secondo l’avviso.
Sin dai suoi primi giorni, l’amministrazione ha espresso il desiderio di scavare più da vicino gli sfondi e le storie dei social media dei viaggiatori stranieri, ma la mossa di giovedì è la prima volta che richiederà praticamente a tutti i candidati di venire negli Stati Uniti di rivelare queste informazioni.
Dopo l’attacco terroristico di San Bernardino nel 2015, è stata posta maggiore attenzione sull’uso dei social media da parte degli immigrati, quando è stato rivelato che uno degli aggressori aveva sostenuto la jihad nei post su un social media privato conto sotto uno pseudonimo che le autorità non hanno saputo trovare prima di permetterle di venire negli Stati Uniti.
La mossa dell’amministrazione Trump non richiede password o accesso ad account di social media, sebbene l’allora segretario alla sicurezza nazionale John Kelly abbia suggerito l’anno scorso di tenere questa richieste in considerazione.
L’amministrazione ha perseguito il “controllo estremo” degli stranieri come elemento centrale della sua politica di immigrazione e di sicurezza nazionale, anche attraverso il contenzioso divieto di viaggio che rimane oggetto di pesanti contenziosi.
Il caso Cambridge Analytica: spiegato bene perché Zuck è nei guai fino al collo
Perché Facebook è di nuovo oggetto di accuse e critiche su come gestisce i nostri dati, e cosa c’entrano Donald Trump e la Russia
Recentementew Guardian e New York Times hanno pubblicato una serie di articoli che dimostrano l’uso scorretto di un’enorme quantità di dati prelevati da Facebook, da parte di un’azienda di consulenza e per il marketing online che si chiama Cambridge Analytica. La vicenda non è interessante solo perché dimostra – ancora una volta – quanto Facebook fatichi a tenere sotto controllo il modo in cui sono usati i suoi dati (che in fin dei conti sono i nostri dati), ma anche perché Cambridge Analytica ha avuto importanti rapporti con alcuni dei più stretti collaboratori di Donald Trump, soprattutto durante la campagna elettorale statunitense del 2016 che lo ha poi visto vincitore.
La storia ha molte ramificazioni e ci sono aspetti da chiarire, compreso l’effettivo ruolo di Cambridge Analytica ed eventuali suoi contatti con la Russia e le iniziative per condizionare le presidenziali statunitensi e il referendum su Brexit nel Regno Unito. Ma partiamo dall’inizio.
Che cos’è Cambridge Analytica
Cambridge Analytica è stata fondata nel 2013 da Robert Mercer, un miliardario imprenditore statunitense con idee molto conservatrici che tra le altre cose è uno dei finanziatori del sito d’informazione di estrema destra Breitbart News, diretto da Steve Bannon (che è stato consigliere e stratega di Trump durante la campagna elettorale e poi alla Casa Bianca).
Cambridge Analytica è specializzata nel raccogliere dai social network un’enorme quantità di dati sui loro utenti: quanti “Mi piace” mettono e su quali post, dove lasciano il maggior numero di commenti, il luogo da cui condividono i loro contenuti e così via.
Queste informazioni sono poi elaborate da modelli e algoritmi per creare profili di ogni singolo utente, con un approccio simile a quello della “psicometria”, il campo della psicologia che si occupa di misurare abilità, comportamenti e più in generale le caratteristiche della personalità.
Più “Mi piace”, commenti, tweet e altri contenuti sono analizzati, più è preciso il profilo psicometrico di ogni utente.
Cosa se ne fa Cambridge Analytica dei dati
Oltre ai profili psicometrici, Cambridge Analytica ha acquistato nel tempo molte altre informazioni, che possono essere ottenute dai cosiddetti “broker di dati”, società che raccolgono informazioni di ogni genere sulle abitudini e i consumi delle persone. Ogni giorno lasciamo dietro di noi una grande quantità di tracce su ciò che facciamo, per esempio quando usiamo le carte fedeltà nei negozi o quando compriamo qualcosa su Internet.
Immaginate la classica situazione per cui andate sul sito di Amazon, cercate un prodotto per vederne il prezzo, poi passate a fare altro e all’improvviso vi trovate su un altro sito proprio la pubblicità di quel prodotto che eravate andati a cercare. Ora moltiplicate questo per milioni di utenti e pensate a qualsiasi altra condizione in cui la loro navigazione possa essere tracciata.
Il risultato sono miliardi di piccole tracce, che possono essere messe insieme e valutate. Le informazioni sono di solito anonime o fornite in forma aggregata dalle aziende per non essere riconducibili a una singola persona, ma considerata la loro varietà e quantità, algoritmi come quelli di Cambridge Analytica possono lo stesso risalire a singole persone e creare profili molto accurati sui loro gusti e su come la pensano.
Cambridge Analytica dice di avere sviluppato un sistema di “microtargeting comportamentale”, che tradotto significa: pubblicità altamente personalizzata su ogni singola persona.
I suoi responsabili sostengono di riuscire a far leva non solo sui gusti, come fanno già altri sistemi analoghi per il marketing, ma sulle emozioni degli utenti. Se ne occupa un algoritmo sviluppato dal ricercatore di Cambridge (da qui il nome dell’azienda) Michal Kosinski, che da anni lavora per migliorarlo e renderlo più accurato.
Il modello è studiato per prevedere e anticipare le risposte degli individui. Kosinski sostiene che siano sufficienti informazioni su 70 “Mi piace” messi su Facebook per sapere più cose sulla personalità di un soggetto rispetto ai suoi amici, 150 per saperne di più dei genitori del soggetto e 300 per superare le conoscenze del suo partner. Con una quantità ancora maggiore di “Mi piace” è possibile conoscere più cose sulla personalità rispetto a quante ne conosca il soggetto.
Ok, ma Facebook cosa c’entra?
Per capire il ruolo di Facebook nella vicenda dobbiamo fare qualche passo indietro: fino al 2014, anno in cui un altro ricercatore dell’Università di Cambridge, Aleksandr Kogan, realizzò un’applicazione che si chiamava “thisisyourdigitallife” (letteralmente “questa è la tua vita digitale”), una app che prometteva di produrre profili psicologici e di previsione del proprio comportamento, basandosi sulle attività online svolte.
Per utilizzarla, gli utenti dovevano collegarsi utilizzando Facebook Login, il sistema che permette di iscriversi a un sito senza la necessità di creare nuovi username e password, utilizzando invece una verifica controllata da Facebook.
Il servizio è gratuito, ma come spesso avviene online è in realtà “pagato” con i dati degli utenti: l’applicazione che lo utilizza ottiene l’accesso a indirizzo email, età, sesso e altre informazioni contenute nel proprio profilo Facebook (l’operazione è comunque trasparente: Facebook mostra sempre una schermata di riepilogo con le informazioni che diventeranno accessibili).
Tre anni fa circa 270mila persone si iscrissero all’applicazione di Kogan utilizzando Facebook Login, accettando quindi di condividere alcune delle loro informazioni personali. All’epoca Facebook permetteva ai gestori delle applicazioni di raccogliere anche alcuni dati sulla rete di amici della persona appena iscritta.
In pratica, tu t’iscrivevi e davi il consenso per condividere alcuni dei tuoi dati e l’applicazione aveva il diritto di raccogliere altre informazioni dai tuoi amici, senza che fossero avvisati (la possibilità era comunque indicata nelle infinite pagine delle condizioni d’uso di Facebook).
In seguito Facebook valutò che la pratica fosse eccessivamente invasiva e cambiò i suoi sistemi, in modo che le reti di amici non fossero più accessibili alle app che utilizzano Facebook Login.
L’applicazione di Kogan fece in tempo a raccogliere i dati sulle reti di amici dei 270mila suoi iscritti, arrivando quindi a memorizzare informazioni di vario tipo su 50 milioni di profili Facebook (la stima è del New York Times e del Guardian: per alcuni è sovradimensionata, per altri comprende per lo più dati inutili). Kogan fu quindi in grado di costruire un archivio enorme, comprendente informazioni sul luogo in cui vivono gli utenti, i loro interessi, fotografie, aggiornamenti di stato pubblici e posti dove avevano segnalato di essere andati (check-in).
Ma se Facebook lo lasciava fare, dov’è il problema?
Fino a quando l’app di Kogan ha raccolto dati sulle reti social degli utenti non c’è stato nulla di strano, perché in quel periodo la pratica era consentita. I problemi sono nati dopo, quando Kogan ha condiviso tutte queste informazioni con Cambridge Analytica, violando i termini d’uso di Facebook.
Il social network vieta infatti ai proprietari di app di condividere con società terze i dati che raccolgono sugli utenti. Per i trasgressori sono previste sanzioni come la sospensione degli account, provvedimento che può determinare la fine del tuo intero modello di business, se questo si basa sui dati e le possibilità di accesso all’applicazione che hai costruito tramite il social network. A quanto sembra, nel caso di Cambridge Analytica la sospensione è arrivata molto tardivamente.
Christopher Wylie, ex dipendente di Cambridge Analytica e principale fonte del Guardian per questa storia, sostiene che Facebook fosse al corrente del problema da circa due anni. Come sostengono anche i legali dell’azienda, temendo una sospensione fu la stessa Cambridge Analytica ad autodenunciarsi con Facebook, dicendo di avere scoperto di essere in possesso di dati ottenuti in violazione dei termini d’uso e di averne disposto subito la distruzione.
Se così fosse, però, non è chiaro perché Facebook abbia deciso di sospendere Cambridge Analytica solo venerdì 16 marzo, e solo dopo essere venuto a conoscenza dell’imminente pubblicazione degli articoli sul caso da parte del Guardian e del New York Times.
Falla? Quale falla?
I giornalisti del Guardian dicono di avere ricevuto forti pressioni da Facebook nei giorni prima della pubblicazione degli articoli, soprattutto per non definire “falla” il meccanismo che consentì a Kogan e poi a Cambridge Analytica di ottenere quell’enorme quantità di dati. Una singola parola può sembrare poca cosa, ma in realtà è centrale in questa vicenda.
Da un punto di vista prettamente informatico e di codice non c’è stata nessuna falla: Kogan non ottenne i dati sfruttando qualche errore o buco nel codice che fa funzionare Facebook, semplicemente sfruttò un sistema che all’epoca era lecito e contemplato nelle condizioni d’uso.
L’integrità informatica di Facebook non è stata quindi violata in nessun modo, e su questo punto i suoi responsabili puntano comprensibilmente molto per tranquillizzare gli utenti e ridimensionare l’accaduto. D’altra parte, non si può negare che le condizioni d’uso di Facebook fossero “fallate”, visto che permettevano una raccolta di informazioni sproporzionata e senza che se ne potessero rendere facilmente conto le persone comprese nelle reti di amici. Il fatto che la pratica fosse lecita non riduce la sua portata o gli effetti che poi nei fatti ha avuto.
Ricapitolando:
• c’è una società vicina alla destra statunitense, Cambridge Analytica, che raccoglie dati personali per creare profili psicologici degli utenti da usare in campagne di marketing super mirate;
• viene sospesa di colpo da Facebook con l’accusa di avere usato dati raccolti sul social network che non le appartenevano;
• Guardian e New York Times pubblicano articoli accusando Facebook di avere reso possibile la raccolta, seppure non attivamente, e di avere poi sottovalutato o nascosto la cosa.
Ora che abbiamo raccolto le idee, possiamo passare all’ultima parte della storia: cosa c’entrano Trump e Brexit.
Trump e le presidenziali del 2016
Venerdì 16 marzo il procuratore speciale Robert Mueller, che indaga sulle presunte interferenze della Russia nelle elezioni statunitensi e sull’eventuale coinvolgimento di Trump, ha chiesto che Cambridge Analytica fornisca documenti sulle proprie attività. Il sospetto è che l’azienda abbia in qualche modo facilitato il lavoro della Russia per fare propaganda contro Hillary Clinton e a favore di Trump.
Nell’estate del 2016, il comitato di Trump affidò a Cambridge Analytica la gestione della raccolta dati per la campagna elettorale. Jared Kushner, il genero di Donald Trump, aveva assunto un esperto informatico, Brad Pascale, che era poi stato contattato da Cambridge Analytica per fargli provare le loro tecnologie.
Steve Bannon, all’epoca capo di Breitbart News e manager della campagna elettorale, sostenne l’utilità di avere una collaborazione con Cambridge Analytica, di cui era stato vicepresidente. Non sappiamo quanto l’azienda abbia collaborato né con quali strumenti, ma dalle indagini condotte finora (giudiziarie, parlamentari e giornalistiche) sappiamo che comunque l’attività online pro-Trump fu molto organizzata e su larga scala.
Furono usate grandi quantità di account fasulli gestiti automaticamente (“bot”) per diffondere post, notizie false e altri contenuti contro Hillary Clinton, modulando la loro attività a seconda dell’andamento della campagna elettorale. Gli interventi erano quasi sempre in tempo reale, per esempio per riempire i social network di commenti durante i dibattiti televisivi tra Trump e Clinton, gli eventi più attesi e seguiti dagli elettori.
Ogni giorno venivano prodotte decine di migliaia di annunci pubblicitari, sui quali misurare la risposta degli utenti online e ricalibrarli privilegiando quelli che funzionavano di più. Tutte attività sulle quali da anni Cambridge Analytica dice di avere grandi capacità e conoscenze.
Cambridge Analytica e la Russia
Anche grazie a un’inchiesta del Wall Street Journal, dalla scorsa estate ci sono nuovi e consistenti indizi sul fatto che Michael Flynn, l’ex consigliere della sicurezza nazionale di Trump, avesse stretti legami con la Russia e le attività per interferire nelle elezioni.
Da un documento fiscale sappiamo inoltre che Flynn ebbe un ruolo da consigliere per una società legata all’analisi di dati online che ha aiutato il comitato elettorale di Trump. Quell’azienda era proprio Cambridge Analytica, che ora sta collaborando con la giustizia statunitense, negando comunque di avere fatto qualcosa di illecito.
Al momento non sappiamo se la grande quantità di dati raccolta da Cambridge Analytica, comprese le informazioni ottenute da Facebook, sia stata passata alla Russia. E se così fosse non è comunque detto che sia stata direttamente Cambridge Analytica a farlo. Non sappiamo nemmeno di quanto si sia avvalso degli strumenti dell’azienda il comitato di Trump, a fronte del grande impegno online per la propaganda elettorale.
Brexit
Nel maggio del 2017 il Guardian aveva già dedicato una lunga inchiesta a Cambridge Analytica e al suo ruolo nella campagna referendaria per Brexit. Secondo l’articolo, l’azienda aveva collaborato alla raccolta di dati e informazioni sugli utenti, utilizzati poi per condizionarli e fare propaganda a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.
Tramite Mercer, Bannon e lo stesso Trump, la società era di fatto in contatto con i principali sostenitori del “Leave” compreso il leader del partito populista UKIP, Nigel Farage. Il Guardian aveva anche messo in evidenza strani passaggi di denaro verso il comitato del “Leave”. Dopo quell’articolo, Cambridge Analytica avviò un’azione legale contro il Guardian.
Ok, ma anche Obama “vinse grazie a Facebook”
In molti hanno fatto notare che i sistemi utilizzati da Cambridge Analytica sono tali e quali alle soluzioni impiegate dai comitati elettorali di Barack Obama nel 2008 e nel 2012, quando fu eletto per due volte presidente degli Stati Uniti. In parte è vero: durante le due campagne elettorali fu raccolta una grande mole di dati sugli utenti per indirizzare meglio pubblicità politiche e coinvolgerli online.
Dalla seconda elezione di Obama a quella di Trump sono però passati quattro anni, un periodo di tempo che ha permesso ulteriori evoluzioni dei sistemi per produrre campagne mirate e soprattutto per raccogliere molti più dati e incrociarli tra loro. Il comitato elettorale di Obama parlava a generici gruppi di persone con interessi comuni, Cambridge Analytica a utenti per i quali individua profili psicologici e comportamentali in modo molto più raffinato.
Fumo e arrosto
In tutta questa vicenda al momento ci sono moltissimo fumo e indizi che qualcosa sia effettivamente bruciato, ma nessuno ha ancora trovato l’arrosto, la prova definitiva e incontrovertibile, soprattutto sugli eventuali legami tra Trump, Russia e Cambridge Analytica. Alcune valutazioni nell’inchiesta sul Guardian suonano un po’ esagerate, considerato che molte cose sul funzionamento di Cambridge Analytica e sulla raccolta dati tramite Facebook erano già note.
L’inchiesta del Guardian ha però il pregio di portare nuovi elementi nel grande dibattito sulle notizie false, sulla propaganda e sulla facilità di diffusione di questi contenuti tramite un uso distorto dei social network. Dimostra che Facebook è probabilmente in buona fede, ma continua ad avere un enorme problema nel garantire che non si faccia un uso non autorizzato dei nostri dati.
Facebook continua a fidarsi troppo degli sviluppatori e a non avere strumenti per prevenire un utilizzo distorto dei dati: può punire chi non rispetta le regole, ma non può fare molto per evitare che i dati siano consegnati ad altri e poi ad altri ancora, come probabilmente è avvenuto nel caso di Cambridge Analytica.
La posizione di Facebook è ulteriormente complicata dal fatto che usa sistemi di raccolta e analisi simili per il suo servizio di marketing interno, attraverso cui tutti possono organizzare campagne pubblicitarie sul social network, e che costituisce la sua principale fonte di ricavo.
Lo stesso problema riguarda buona parte delle altre aziende attive online e che offrono gratuitamente i loro servizi, in cambio della pubblicità e della raccolta di informazioni sugli utenti. In misure diverse, vale per esempio per Google e Twitter. Mentre negli ultimi anni l’Unione Europea ha avviato iniziative per arginare il problema, inasprendo le regole sulla privacy, negli Stati Uniti il mercato dei dati non ha subìto particolari limitazioni.
Le richieste negli ultimi giorni di politici e membri del Congresso a Facebook di chiarire meglio la propria posizione, chiedendo che sia anche organizzata un’audizione parlamentare per il CEO Mark Zuckerberg, indicano che qualcosa potrebbe cambiare anche negli Stati Uniti. Una regolamentazione più precisa è del resto attesa da tempo da organizzazioni e attivisti per la tutela della privacy online.
Arriva il GDPR e voi siete in ritardo, sappiatevelo
il 25 maggio 2018 comincerà l’era del GDPR, entra cioè in vigore il General Data Protection Regulation
NDR Rendiamo atto ai nostri burocrati Bruxellesi di aver fatto del loro meglio per proteggere la privacy degli utenti europei pur restando completamente digiuni in termini di informatica e web. Detto questo: attenti alle penali che verranno erogate in termini di percentuali sul fatturato. Come quella che si pensa di applicare a Zuckerberg in seguito ai recenti avvenimenti, pari al 4% del fatturato 2017 di faceBook, cioè credo $41.000.000 (è la multa NON il fatturato), non che non se lo meriti naturalmente.
Dal sito del Garante per la privacy: Guida all’applicazione del Regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali.
dac Wiki: Il regolamento generale sulla protezione dei dati (RGPD, in inglese GDPR, General Data Protection Regulation- Regolamento UE 2016/679) è un regolamento con il quale la Commissione europea intende rafforzare e rendere più omogenea la protezione dei dati personali di cittadini dell’Unione europea e dei residenti nell’Unione Europea, sia all’interno che all’esterno dei confini dell’Unione europea (UE). Il testo, pubblicato su Gazzetta Ufficiale Europea il 4 maggio 2016 ed entrato in vigore il 25 maggio dello stesso anno, inizierà ad avere efficacia il 25 maggio 2018
(La presente Guida è soggetta a integrazioni e modifiche alla luce dell’evoluzione della riflessione a livello nazionale ed europeo)
La Guida intende offrire un panorama delle principali problematiche che imprese e soggetti pubblici dovranno tenere presenti in vista della piena applicazione del regolamento, prevista il 25 maggio 2018.
Attraverso raccomandazioni specifiche vengono suggerite alcune azioni che possono essere intraprese sin d’ora perché fondate su disposizioni precise del regolamento che non lasciano spazi a interventi del legislatore nazionale (come invece avviene per altre norme del regolamento, in particolare quelle che disciplinano i trattamenti per finalità di interesse pubblico ovvero in ottemperanza a obblighi di legge).
Vengono, inoltre, segnalate alcune delle principali novità introdotte dal regolamento rispetto alle quali sono suggeriti possibili approcci.
La presente Guida è soggetta a integrazioni e modifiche alla luce dell’evoluzione della riflessione a livello nazionale ed europeo.
Fondamenti di liceità del trattamento
Il regolamento conferma che ogni trattamento deve trovare fondamento in un’idonea base giuridica; i fondamenti di liceità del trattamento sono indicati all’art. 6 del RGPD e coincidono, in linea di massima, con quelli previsti attualmente dal Codice … (continua a leggere)
Informativa
I contenuti dell’informativa sono elencati in modo tassativo negli articoli 13(1) e 14(1) del regolamento … (continua a leggere)
Diritti degli interessati (accesso, cancellazione-oblio, limitazione del trattamento, opposizione, portabilità)
Le modalità per l’esercizio di tutti i diritti da parte degli interessati sono stabilite, in via generale, negli artt. 11 e 12 del regolamento … (continua a leggere)
Titolare, responsabile, incaricato del trattamento
Il regolamento definisce caratteristiche soggettive e responsabilità di titolare e responsabile del trattamento negli stessi termini di cui alla direttiva 95/46/CE (e, quindi, al Codice italiano) … (continua a leggere)
Approccio basato sul rischio del trattamento e misure di accountability di titolari e responsabili (valutazione di impatto, registro dei trattamenti, misure di sicurezza, violazioni dei dati personali, nomina di un RDP-DPO)
Il regolamento pone con forza l’accento sulla “responsabilizzazione” (accountability nell’accezione inglese) di titolari e responsabili – ossia, sull’adozione di comportamenti proattivi e tali da dimostrare la concreta adozione di misure finalizzate ad assicurare l’applicazione del regolamento … (continua a leggere)
Trasferimenti internazionali di dati
Il RGPD (si veda Capo V) ha confermato l’approccio attualmente vigente in base alla direttiva 95/46 e al Codice italiano per quanto riguarda i flussi di dati al di fuori dell’Unione europea e dello spazio economico europeo … (continua a leggere)
Google, Facebook e Twitter vietano la pubblicità di bitcoin
Google e Facebook mettono al bando le pubblicità relative a Bitcoin, Poteva mancare Twitter? Certo che no. E infatti qualche giorno fa è uscita un’indiscrezione: tra due settimane anche l’uccellino blu proibirà gli annunci relativi a bitcoin e criptovalute, Ico incluse.
Google sta prendendo di mira la pubblicità legata alla criptovaluta.
La società non consentirà più annunci relativi ai contenuti relativi alla criptovaluta, comprese le offerte iniziali di monete (ICO), i portafogli e i consigli di trading su qualsiasi piattaforma pubblicitaria.
La mossa segue un analogo divieto di Facebook all’inizio di quest’anno.
La società sta aggiornando le sue politiche pubblicitarie relative ai servizi finanziari per vietare qualsiasi pubblicità sui contenuti relativi alla criptovaluta, comprese le offerte iniziali di monete (ICO), portafogli e consigli di trading, ha detto a CNBC Scott Spencer, direttore delle pubblicità sostenibili di Google.
Ciò significa che anche le società con offerte di criptovaluta legittime non saranno autorizzate a pubblicare annunci pubblicitari tramite i prodotti pubblicitari di Google, che pubblicano annunci sui propri siti e su siti Web di terzi.
Questo aggiornamento entrerà in vigore nel mese di giugno 2018, secondo un post aziendale. “Non abbiamo una sfera di cristallo per sapere dove andrà il futuro con le criptovalute, ma abbiamo visto un danno al consumatore o un potenziale danno per il consumatore che è un’area che vogliamo affrontare con estrema cautela”, ha detto Scott.
L’approccio hard line di Google segue un divieto simile che Facebook ha annunciato all’inizio di quest’anno. Mentre il boom della criptovaluta ha prodotto un sacco di eccitazione e ricchezza, è ancora uno spazio ampiamente non regolamentato e ha generato innumerevoli truffe di alto profilo.
Questa notizia arriva quando Google pubblica il suo rapporto annuale di “fiducia e sicurezza”.
Google ha dichiarato di aver rimosso più di 3,2 miliardi di annunci pubblicitari nel 2017 che hanno violato le sue politiche, che è quasi il doppio degli 1,7 miliardi rimossi l’anno prima. La società madre di Google Alphabet produce circa l’84 percento del suo fatturato totale dalla pubblicità, quindi gli inserzionisti convincenti che il suo ecosistema è sicuro ed efficace è di fondamentale importanza.
Da Rob Leathern, Product Management Director di FaceBook:
i nostri principi pubblicitari principali delineano la nostra convinzione che le pubblicità debbano essere sicure e che noi costruiamo prima le persone.
Gli annunci ingannevoli o ingannevoli non hanno posto su Facebook.
Abbiamo creato una nuova norma che vieta gli annunci che promuovono prodotti e servizi finanziari che sono frequentemente associati a pratiche promozionali ingannevoli o ingannevoli, come le opzioni binarie, le offerte iniziali di monete e criptovaluta. Vogliamo che le persone continuino a scoprire e conoscere nuovi prodotti e servizi attraverso le pubblicità di Facebook senza temere truffe o inganni.
Detto questo, ci sono molte aziende che pubblicizzano opzioni binarie, Ico e criptovalute che attualmente non operano in buona fede. Questa politica è intenzionalmente ampia mentre lavoriamo per individuare meglio pratiche pubblicitarie ingannevoli e fuorvianti e l’applicazione inizierà ad aumentare le nostre piattaforme, tra cui Facebook, Audience Network e Instagram.
Rivedremo questa politica e come la applichiamo man mano che i nostri segnali migliorano.
Comprendiamo inoltre che potremmo non rilevare tutti gli annunci che devono essere rimossi in base a questa nuova norma e incoraggiare la nostra community a segnalare contenuti che violano le nostre norme pubblicitarie. Le persone possono segnalare qualsiasi annuncio su Facebook facendo clic sull’angolo in alto a destra dell’annuncio.
Questa politica è parte di uno sforzo continuo per migliorare l’integrità e la sicurezza dei nostri annunci e per rendere più difficile per i truffatori trarre profitto da una presenza su Facebook.
Il web può diventare pericoloso – dai una mano anche tu!
Le minacce che vengono dal web oggi sono reali e molte, dalla disinformazione e pubblicità politica discutibile a una perdita di controllo sui nostri dati personali
Tim Bernerss Lee – Internet founder
Tratto, tradotto ed adattato da WorldWebFoundation
Il world wide web compie 29 anni.
Quest’anno segna una pietra miliare nella storia del web: per la prima volta, attraverseremo il punto di non ritorno quando più della metà della popolazione mondiale sarà online. Quando condivido questa entusiasmante notizia con le persone, tendo ad ottenere una delle due reazioni preoccupate:
come possiamo collegare l’altra metà del mondo?
Siamo sicuri che il resto del mondo voglia connettersi al web che abbiamo oggi?
Le minacce al web oggi sono reali e molte, comprese quelle che ho descritto nella mia ultima lettera, dalla disinformazione e pubblicità politica discutibile a una perdita di controllo sui nostri dati personali. Ma continuo a impegnarmi per garantire che il web sia uno spazio libero, aperto e creativo, per tutti.
Questa visione è possibile solo se portiamo tutti online e assicuriamo che il web funzioni per le persone.
Ho fondato la Web Foundation per lottare per il futuro del web. Ecco dove dobbiamo concentrare i nostri sforzi:
Chiudere il divario digitale
La divisione tra le persone che hanno accesso a Internet e coloro che non lo fanno sta approfondendo le disuguaglianze esistenti – disuguaglianze che rappresentano una seria minaccia globale.
Non sorprendentemente, è più probabile che tu sia offline se sei femmina, povera, vivi in una zona rurale o in un paese a basso reddito, o una combinazione di quanto sopra.
Essere offline oggi significa essere escluso dalle opportunità di imparare e guadagnare, accedere a servizi preziosi e partecipare al dibattito democratico. Se non investiremo seriamente per colmare questa lacuna, l’ultimo miliardo di esseri umani non sarà collegato fino al 2042.
È un’intera generazione rimasta indietro.
Nel 2016, le Nazioni Unite hanno dichiarato l’accesso a Internet un diritto umano, alla pari di acqua pulita, elettricità, riparo e cibo. Ma fino a quando renderemo l’accesso a Internet accessibile a tutti, a miliardi continueranno a essere negati questo diritto fondamentale.
L’obiettivo è stato fissato: le Nazioni Unite hanno recentemente adottato la soglia dell’Alliance for Affordable Internet per l’accessibilità: 1 GB di dati mobili per meno del 2% del reddito medio mensile.
La realtà, tuttavia, è che siamo ancora molto lontani dal raggiungere questo obiettivo: in alcuni paesi, il costo di 1 GB di banda larga mobile rimane oltre il 20% del reddito medio mensile. Cosa ci vorrà per raggiungere effettivamente questo obiettivo?
Dobbiamo supportare politiche e modelli di business che ampliano l’accesso ai più poveri del mondo attraverso soluzioni di accesso pubblico, come reti di comunità e iniziative WiFi pubbliche.
Dobbiamo investire nell’assicurare un accesso affidabile per donne e ragazze e rafforzarle attraverso la formazione sulle competenze digitali. Fai in modo che il Web funzioni per le persone Il web che molti utenti connessi anni fa non è quello che i nuovi utenti troveranno oggi.
Quello che una volta era una ricca selezione di blog e siti web è stato compresso sotto il potente peso di poche piattaforme dominanti.
Questa concentrazione di potere crea una nuova serie di guardiani, consentendo a una manciata di piattaforme di controllare quali idee e opinioni sono viste e condivise. Queste piattaforme dominanti sono in grado di bloccare la loro posizione creando barriere per i concorrenti. Acquisiscono sfidanti all’avvio, acquistano nuove innovazioni e assumono i migliori talenti del settore.
Aggiungete a questo il vantaggio competitivo che i loro dati degli utenti danno loro e possiamo aspettarci che i prossimi 20 anni siano molto meno innovativi degli ultimi. Inoltre, il fatto che il potere sia concentrato tra così poche aziende ha permesso di armare il web su vasta scala.
Negli ultimi anni, abbiamo assistito a teorie del complotto sulle piattaforme dei social media, i falsi account Twitter e Facebook alimentano le tensioni sociali, gli attori esterni interferiscono nelle elezioni e i criminali rubano i dati personali. Abbiamo cercato le risposte stesse per le piattaforme stesse.
Le aziende sono consapevoli dei problemi e stanno compiendo sforzi per risolverli – con cambiamenti che hanno colpito milioni di persone. La responsabilità – e a volte l’onere – di prendere queste decisioni ricade sulle aziende che sono state costruite per massimizzare i profitti più che massimizzare il bene sociale. Un quadro giuridico o normativo che tiene conto degli obiettivi sociali può contribuire a ridurre queste tensioni.
Porta più voci al dibattito sul futuro del web Il futuro del web non riguarda solo quelli di noi che sono online oggi, ma anche quelli che non sono ancora connessi. La potente economia digitale odierna richiede standard elevati che bilanciano gli interessi di entrambe le società e dei cittadini online. Ciò significa pensare a come allineare gli incentivi del settore tecnologico con quelli degli utenti e della società in generale e consultare una sezione trasversale della società nel processo.
Due miti al momento limitano la nostra immaginazione collettiva:
il mito che la pubblicità è l’unico modello di business possibile per le aziende online e il mito che sia troppo tardi per cambiare il modo in cui operano le piattaforme.
Su entrambi i punti, dobbiamo essere un po ‘più creativi. Mentre i problemi del web sono complessi e grandi, penso che dovremmo vederli come bug: problemi con i sistemi di codice e software esistenti che sono stati creati dalle persone e che possono essere risolti dalle persone.
Creare una nuova serie di incentivi e le modifiche nel codice seguiranno. Possiamo progettare un web che crea un ambiente costruttivo e di supporto. Oggi voglio sfidare tutti noi ad avere maggiori ambizioni per il web. Voglio che il web rifletta le nostre speranze e realizzi i nostri sogni, piuttosto che amplificare le nostre paure e approfondire le nostre divisioni.
Come disse un tempo l’attivista di Internet, John Perry Barlow, “un buon modo per inventare il futuro è prevederlo”. Può sembrare utopico, può sembrare impossibile da ottenere dopo le battute d’arresto degli ultimi due anni, ma voglio che ci immaginiamo il futuro e lo costruiamo.
Assembliamo le menti più brillanti di affari, tecnologia, governo, società civile, arte e università per affrontare le minacce al futuro del web. Alla Web Foundation, siamo pronti a fare la nostra parte in questa missione e costruire il web che tutti noi vogliamo.
Lavoriamo insieme per renderlo possibile.
Sir Tim Berners-Lee
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La Web Foundation è in prima linea nella lotta per far progredire e proteggere il web per tutti.
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Bill Gates è la risposta degli anni ’90 a Don Corleone?
Se hai meno di 29 anni – che è l’età media di un dipendente di Google, secondo un sondaggio fatto da PayScale – allora le probabilità sono buone che non ti ricordi molto delle battaglie antitrust di Microsoft degli anni ’90.
Continua la saga dei Raffs, del loro motore di ricerca Foundem e della loro lotta contro Google.
Quest’articolo è tratto da un‘inchiesta del NYT che ho tradotto ed adattato per l’italiano
Ecco un riassunto veloce: per quasi un decennio, a partire dal 1993, i pubblici ministeri federali e statali assediarono Microsoft nelle aule di tutta la nazione, sostenendo che la compagnia aveva agito in modo predatorio e disonesto per preservare il monopolio del software. Un dirigente di Microsoft è stato citato in tribunale come minaccia di “tagliare” la “fornitura d’aria” di un concorrente.
“Bill Gates è la risposta degli anni ’90 a Don Corleone?” Chiese Time. “Mi aspettavo di trovare un monitor del computer insanguinato nel mio letto”, ha detto un testimone agli investigatori. Lungo la strada, Microsoft è stata accusata di bullismo diffuso, coercizione e sgradevolezza generale.
E Microsoft sostanzialmente ha detto: qualunque cosa. “C’è un tizio che si occupa delle licenze”, ha detto Bill Gates ai giornalisti dopo aver firmato un decreto di consenso con il Dipartimento di Giustizia nel 1994. “Leggerà l’accordo.”
Tutti gli altri, l’implicazione era, l’avrebbero ignorata. Anche quando un giudice ha stabilito nel 2000 che Microsoft stava violando la legge antitrust, la saggezza convenzionale riteneva che la vittoria fosse in gran parte pirotecnica. Microsoft ha fatto appello con successo e i pubblici ministeri alla fine hanno gettato la spugna, accettando di abbandonare i loro attacchi e credere che Microsoft avesse accettato le riforme richieste: come rendere i suoi prodotti più compatibili con il software della concorrenza e dare a tre osservatori indipendenti libero accesso ai registri dell’azienda, dipendenti e codice sorgente.
I dirigenti di Microsoft pensavano che tre osservatori, contro i 48.000 impiegati, fossero probabilità piuttosto buone.
Questa è stata la storia che i Raffs hanno ricordato quando hanno ascoltato la F.T.C. stava abbandonando la sua indagine. Ma poi, ricordarono anche una discussione che avevano avuto una volta con un avvocato di nome Gary Reback, che disse loro che tutto ciò che avevano sentito sui processi di Microsoft era sbagliato.
Reback è una specie di leggenda nella Silicon Valley, sia per i suoi successi come provocatore antitrust, sia per la sua ansia – qualcuno potrebbe dire paranoico – visione del mondo.
Reback è noto per chiamare altri avvocati a tarda notte e lasciare messaggi vocali lunghi e ossessivamente dettagliati su argomenti legali e teorie economiche.
È apparso in una copertina della rivista Wired del 1997 con il titolo “Il peggio incubo di Bill Gates è questo avvocato”, un vanto che non era immeritato: lavorando per conto di clienti come Netscape e Sun Microsystems, Reback aveva indotto il Dipartimento di Giustizia a denunciare Microsoft per antitrust.
Quando Adam e Shivaun iniziarono a visitare la F.T.C., Reback aveva scambiato la sua antipatia con Microsoft per il disprezzo di Google e li aveva accompagnati nelle loro visite.
C’è una coalizione di economisti e teorici legali che si autodefiniscono il New Brandeis Movement (i critici li chiamano “antitrust hipsters“), che credono che i giganti della tecnologia odierna pongano minacce significative come Standard Oil un secolo fa.
“Tutti i soldi spesi online ora sono solo di poche aziende”, afferma Reback (che disdegna l’etichetta New Brandeis).
“Non hanno bisogno di dinamite o Pinkerton per distruggere i loro concorrenti. Hanno solo bisogno di algoritmi e dati. “
Reback aveva detto ad Adam e Shivaun che era importante per loro continuare la loro battaglia, a prescindere dalle battute d’arresto, e come prova ha indicato il processo Microsoft. Chiunque abbia affermato che la persecuzione degli anni ’90 di Microsoft non ha portato a compimento nulla – che erano società come Google, piuttosto che avvocati del governo, che hanno umiliato Microsoft – non sapevano di cosa stessero parlando, ha detto Reback.
In realtà, sosteneva, era vero il contrario: gli attacchi antitrust su Microsoft hanno fatto la differenza.
Condannare Microsoft come monopolio è il motivo per cui Google esiste oggi, ha affermato.
Sorprendentemente, alcune persone che hanno lavorato in Microsoft negli anni ’90 e nei primi anni 2000 sono d’accordo con lui. Nei giorni in cui i pubblici ministeri federali stavano attaccando Microsoft giorno e notte, la compagnia avrebbe potuto cancellare pubblicamente i sconcorrenti neonati, dicono gli addetti ai lavori.
Ma all’interno del luogo di lavoro, l’atteggiamento era totalmente diverso. Mentre il governo ha fatto loro causa, i dirigenti di Microsoft erano diventati talmente ansiosi e timidi che in sostanza hanno minato il loro monopolio per il terrore che di essere nuovamente messi alla prova.
Non sono stati i decreti di consenso o le decisioni giudiziarie a fare la differenza, secondo molti dipendenti attuali e precedenti di Microsoft. Era “il costante scrutinio e l’essere sul giornale tutto il tempo”, ha detto Gene Burrus, un ex avvocato di Microsoft. “Le persone hanno iniziato a indovinare se stessi.
In pubblico, Bill Gates stava dichiarando la vittoria, ma all’interno di Microsoft, i dirigenti chiedevano che gli avvocati e gli altri funzionari di conformità – il tipo di persone che, in precedenza, venivano regolarmente ignorate – fossero invitati ad ogni incontro.
Gli ingegneri del software iniziarono a visitare casualmente le scrivanie degli avvocati descrivendo le nuove funzionalità del software, e poi, con sussurri chiedevano, se qualcosa che avevano menzionato avrebbe potuto scatenare un mandato di comparizione.
Un dirigente di Microsoft ha trasferito una sedia in più nel suo ufficio in modo che un funzionario di conformità potesse sedersi accanto a lui durante le revisioni dei prodotti. Ogni volta che un programmatore descriveva una nuova idea, l’esecutivo si rivolgeva al funzionario, che puntava il pollice in su o in giù come un capriccioso imperatore romano.
Agli inizi degli anni 2000, i massimi dirigenti di Microsoft dissero ad alcune divisioni che i loro piani sarebbero stati condivisi proattivamente con i concorrenti, descrivendo letteralmente ciò che l’azienda intendeva creare prima ancora che il software fosse costruito, per assicurarsi che non offendesse nessuno che avrebbe potuto citare in giudizio.
Gli ingegneri di Microsoft erano indignati. Ma hanno dovuto cedere.
E, cosa più importante, visto che Microsoft viveva sotto controllo governativo, i dipendenti abbandonarono quelle che erano state le nascenti discussioni interne sullo schiacciamento di un giovane concorrente emergente – Google.
Vi erano state congetture informali sulla riprogrammazione del browser Web di Microsoft, il popolare Internet Explorer, così che ogni volta che qualcuno avesse digitato”Google”, sarebbe stato reindirizzato a MSN Search, dicono gli addetti ai lavori della società.
Oppure sarebbe potuto apparire un messaggio di avviso: “Sai che Google utilizza i tuoi dati in modi che non puoi controllare?” Microsoft era così potente e Google così nuovo che il motore di ricerca giovane avrebbe potuto essere distrutto.
“Ma c’era una nuova cultura della conformità, e non volevamo più finire nei guai, quindi non è successo nulla”, ha detto Burrus. Il mito che Google abbia umiliato Microsoft da solo è sbagliato. La causa antitrust del governo è una delle ragioni per cui Google è riuscita a rompere il monopolio di Microsoft.
“Se Microsoft non fosse stata denunciata, tutta la tecnologia sarebbe diversa oggi”, mi ha detto Reback.
Conosciamo dal caso Standard Oil che i progressi tecnologici rendono più facile l’emergere dei monopoli. Ma ciò che è meno riconosciuto è l’importanza dell’antitrust nell’assicurare che queste nuove tecnologie si diffondano a tutti gli altri.
Nel 1969 il Dipartimento di Giustizia ha avviato una causa contro IBM per violazioni antitrust durata 13 anni. Il governo alla fine si arrese, ma in un precedente tentativo di attenuare i pubblici ministeri, IBM eliminò la pratica di raggruppare hardware e software, un cambiamento che sostanzialmente creò l’industria del software.
All’improvviso, le nuove start-up potevano prendere piede semplicemente scrivendo programmi anziché costruire macchine.
Microsoft è stata fondata pochi anni dopo e presto ha superato IBM. Considerate AT & T, che è stato citato in giudizio dal governo nel 1974, ha combattuto in tribunale per otto anni e poi ha astutamente accettato di disinvestire in alcune imprese per poter mantenere le sue risorse più preziose. I critici si sono lamentati che AT & T stava ottenendo l’affare di una vita.
Ma poi le start-up come Sprint e MCI hanno fatto milioni costruendo su tecnologieche AT & T ha sostenuto, e AT & T si è trovato a lottare per competere.
È completamente sbagliato affermare che l’antitrust non ha importanza, sostiene Reback. “Internet esiste solo perché abbiamo rotto AT & T.
L’industria del software esiste perché Johnson ha fatto causa all’IBM. “Era fondamentale che i Raffs continuassero a combattere, Reback ha detto loro. L’imbarazzo sociale e gli attacchi prolungati hanno il potere di avere successo quando le aule di tribunale o le agenzie politiche falliscono.
Dopo la loro delusione causata da F.T.C., i Raffs tornarono in Inghilterra per prendere in considerazione le loro opzioni. E poi una notte mentre erano a casa a guardare la televisione squillò il telefono. Qualcuno che avevano incontrato a Bruxelles stava chiamando per condividere alcune notizie notevoli.
La Commissione europea aveva emesso una decisione sulla denuncia presentata sei anni prima.
Facebook and Gazprom
da Vincos Blog la mappa dei social network nel mondo 2018
La nuova mappa dei social network più popolari per nazione presenta parecchie novità rispetto a dodici mesi fa.
Grazie ai nuovi dati di traffico web di Alexa (Amazon), ho incluso ulteriori 15 stati nella mia analisi, arrivando ad avere un quadro più ampio della situazione mondiale, soprattutto quella africana.
Facebook, che ha superato la soglia dei due miliardi di utenti mensili, è il social network preferito in ben 152 dei 167 paesi analizzati, il 91% dei territori del pianeta.
Se un anno fa alcune nazioni avevano fatto registrare l’interesse per Linkedin e Instagram, oggi l’armata di Zuckerberg ha riaffermato il suo dominio, contagiando quasi tutto il continente africano (probabilmente merito anche delle iniziative per colmare il digital divide e che prevedono l’accesso gratuito al social network).
Gli unici baluardi contro lo strapotere di Facebook sono Odnoklassniki (OK.ru ha 71 milioni di utenti attivi al Mese) e VK (in precedenza noto come VKontakte ha 97 milioni di attivi al mese) entrambi leader in 7 paesi dell’ex blocco sovietico, e QZone in Cina. Particolare la situazione in Iran dove, a causa della censura di stato, riesce ad emergere Instagram.
Ma cosa succede dietro le posizioni di leadership? Per scoprirlo ho confrontato vari servizi di analisi del traffico, come SimilarWeb e Alexa, che danno una stima della popolarità per nazione, in assenza di dati ufficiali granulari.
Nelle 57 nazioni che sono riuscito ad analizzare, si nota una competizione serrata tra Instagram, al secondo posto in 23 paesi, e Twitter, presente in 22 paesi. Il primo, in questo anno, è cresciuto fino a conquistare 800 milioni di utenti mensili, mentre il secondo pur crescendo di poco (ora ha 330 milioni di utenti) ha strappato 12 nazioni al network delle immagini.
In questi 12 mesi è cresciuto anche Reddit, il forum 2.0, che ha conquistato la seconda posizione in 7 nazioni, tra cui Australia, Canada, e i paesi del nord Europa.
Insomma sembra proprio che il mondo dei social network sia destinato a rimanere diviso in blocchi. Forse solo lo spostamento verso la fruizione dei social da dispositivo mobili potrebbe spostare gli equilibri in futuro. Vedremo cosa accadrà nei prossimi mesi. Quali sono le vostre previsioni?
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