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Riusciranno gli umani a gestire l’intelligenza artificiale?

Preso tradotto ed adattato da: EPFL

Nell’intelligenza artificiale (AI), le macchine eseguono azioni specifiche, osservano il risultato, adattano il loro comportamento di conseguenza, osservano il nuovo risultato, adattano il loro comportamento ancora una volta, e così via, imparando da questo processo iterativo. Ma questo processo potrebbe andare fuori controllo?

NdR. Ecco un altro allarme sul futuro possibile in cui macchine, intese come robot oppure automobili e forse i temibili microonde diventeranno intelligenti grazie ai nostri insegnamenti, tanto intelligenti da acquisire una propria autocoscienza e quindi prendere il sopravvento sulla razza umana.

A parte il fatto che l’intelligenza porta sempre alla ricerca di autogratificazione e quindi il nirvana delle macchine potrebbe consistere semplicemente nel mandare i propri comandi in loop all’infinito, concentrandosi sui processi della propria CPU, una versione digitale del buddismo.

Il problema vero relativo alla AI è che già esiste e già fa veramente molto danno, la vera AI risiede negli algoritmi dei social e vari motori di ricerca che già guidano le nostre scelte, non solo commerciali, plagiano le menti più deboli o pigre e ripetendo a ciascuno di noi quello che già ci vogliamo sentire dire porta ad un progressivo abbrutimento già  pesantemente in atto.

“L’IA cercherà sempre di evitare l’intervento umano e creerà una situazione in cui non può essere fermato”, dice Rachid Guerraoui, professore al Distributed Programming Laboratory dell’EPFL e coautore dello studio EPFL. Ciò significa che gli ingegneri IA devono impedire alle macchine di imparare alla fine come eludere i comandi umani.

I ricercatori dell’EPFL che hanno studiato questo problema hanno scoperto un modo per gli operatori umani di mantenere il controllo di un gruppo di robot IA.

Un metodo di apprendimento automatico utilizzato nell’intelligenza artificiale è l’apprendimento di rinforzo, in cui gli agenti vengono premiati per l’esecuzione di determinate azioni, una tecnica presa in prestito dalla psicologia comportamentale.

Applicando questa tecnica all’IA, gli ingegneri usano un sistema a punti in cui le macchine guadagnano punti eseguendo le azioni giuste.

Ad esempio, un robot può guadagnare un punto per impilare correttamente un set di scatole e un altro punto per recuperare una scatola dall’esterno Ma se, in un giorno di pioggia, ad esempio, un operatore umano interrompe il robot mentre esce per raccogliere una scatola, il robot scoprirà che è meglio stare al chiuso, impilare scatole e guadagnare più punti possibile.

“La sfida non è quella di fermare il robot, ma piuttosto di programmarlo in modo che l’interruzione non cambi il suo processo di apprendimento – e non lo induca ad ottimizzare il suo comportamento in modo tale da evitare di essere fermato”, dice Guerraoui.

Da una singola macchina a un’intera rete di IA Nel 2016, i ricercatori di Google DeepMind e il Future of Humanity Institute della Oxford University hanno sviluppato un protocollo di apprendimento che impedisce alle macchine di imparare dalle interruzioni e diventare quindi incontrollabili.

Per esempio, nell’esempio sopra, la ricompensa del robot – il numero di punti che guadagna – verrebbe pesata dalla possibilità di pioggia, dando al robot un maggiore incentivo a recuperare le scatole all’esterno. “Qui la soluzione è abbastanza semplice perché abbiamo a che fare con un solo robot”, afferma Guerraoui.

Tuttavia, l’intelligenza artificiale è sempre più utilizzata in applicazioni che coinvolgono decine di macchine, come auto a guida autonoma sulla strada o droni in aria. “Questo rende le cose molto più complicate, perché le macchine iniziano a imparare l’una dall’altra – specialmente nel caso di interruzioni”.

Imparano non solo da come vengono interrotte individualmente, ma anche da come vengono interrotte le altre “, afferma Alexandre Maurer, uno degli autori dello studio. Hadrien Hendrikx, un altro ricercatore coinvolto nello studio, dà l’esempio di due auto a guida automatica che si susseguono su una strada stretta dove non possono passare l’un l’altro. Devono raggiungere la loro destinazione il più rapidamente possibile – senza violare alcuna legge sul traffico – e gli esseri umani nelle macchine possono prendere il controllo in qualsiasi momento. Se l’umano nella prima macchina frena spesso, la seconda macchina adatterà il suo comportamento ogni volta e alla fine si confonderà quando frenare, eventualmente rimanendo troppo vicino alla prima auto o guidando troppo lentamente.

Dare agli esseri umani l’ultima parola

Questa complessità è ciò che i ricercatori dell’EPFL mirano a risolvere attraverso “l’interruzione sicura”.

Il loro metodo rivoluzionario consente all’uomo di interrompere i processi di apprendimento dell’IA quando necessario, assicurandosi che le interruzioni non cambino il modo in cui le macchine apprendono. “In poche parole, aggiungiamo meccanismi” dimenticabili “agli algoritmi di apprendimento che essenzialmente eliminano i bit della memoria di una macchina.

È un po ‘come il dispositivo flash di Men in Black “, afferma El Mahdi El Mhamdi, un altro autore dello studio.

In altre parole, i ricercatori hanno modificato il sistema di apprendimento e ricompensa delle macchine in modo che non sia influenzato dalle interruzioni. È come se un genitore punisce un bambino, ciò non influenza i processi di apprendimento degli altri bambini della famiglia. “Abbiamo lavorato su algoritmi esistenti e abbiamo dimostrato che l’interruzione sicura può funzionare indipendentemente dalla complessità del sistema di intelligenza artificiale, dal numero di robot coinvolti o dal tipo di interruzione.

 

 

Papa francesco: servono etica e spiritualità a chi naviga online

Riporto un brano del “Discorso del santo Padre francesco all’università Roma tre” tenuto Venerdì, 17 febbraio 2017.
Certamente non è una notizia recente ma la riporto volentieri per l’autorevolezza della fonte e perché solo adesso ho avuto occasione di conoscere il testo.

Questo è quanto il Santo Padre consiglia a chi ha occasione di utilizzare i social network per diletto o per lavoro:
“In ogni ambiente, specialmente in quello universitario, è importante leggere e affrontare questo cambiamento di epoca con riflessione e discernimento, cioè senza pregiudizi ideologici, senza paure o fughe.

Ogni cambiamento, anche quello attuale, è un passaggio che porta con sé difficoltà, fatiche e sofferenze, ma porta anche nuovi orizzonti di bene.

I grandi cambiamenti chiedono di ripensare i nostri modelli economici, culturali e sociali, per recuperare il valore centrale della persona umana.

Riccardo, nella terza domanda, ha fatto riferimento alle “informazioni che in un mondo globalizzato sono veicolate specialmente dai social network”.

In questo ambito così complesso, mi pare sia necessario operare un sano discernimento, sulla base di criteri etici e spirituali.

Occorre, cioè, interrogarsi su ciò che è buono, facendo riferimento ai valori propri di una visione dell’uomo e del mondo, una visione della persona in tutte le sue dimensioni, soprattutto in quella trascendente.”

Per quanto posso capire ci consiglia di usare l’etica ed una sana preparazione per affrontare il flusso di notizie, quasi sempre incontrollato, che quotidianamente ci raggiunge via web.

Cito ancora: «occorre interrogarsi su ciò che [via web e social] è buono, facendo riferimento ai valori propri di una visione dell’uomo e del mondo, una visione della persona in tutte le sue dimensioni, soprattutto quella trascendente»

Non è certamente la prima volta che il papa affronta questo tema, potete trovare altri collegamenti e citazioni da questo articolo di Avvenire

 

Allarme fake news in sanità: 8,8 milioni di italiani hanno trovato sul web informazioni mediche sbagliate

Riporto integralmente questo articolo del Censis* che tratta delle fake news in sanità e che non ha bisogno di commenti

49 milioni di italiani soffrono di piccoli disturbi (dal mal di testa al raffreddore), di cui 17 milioni con grande frequenza: un enorme fabbisogno sanitario che, senza il ricorso ai farmaci da banco, finirebbe per scaricarsi sul Servizio sanitario nazionale. Per l’automedicazione spendiamo il 39% in meno della media degli altri grandi Paesi europei. Ma servono una comunicazione corretta e l’educazione alle scelte di salute

Allarme fake news in sanità.

Sono 15 milioni gli italiani che, in caso di piccoli disturbi (dal mal di testa al raffreddore), cercano informazioni sul web. Ma 8,8 milioni sono stati vittime di fake news nel corso dell’anno.

In particolare, sono 3,5 milioni i genitori che si sono imbattuti in indicazioni mediche sbagliate.

Dati allarmanti per la salute: se il medico di medicina generale (53,5%) e il farmacista (32,2%) restano le principali fonti di informazione, decolla il ricorso ai diversi canali web (28,4%). Il 17% degli italiani consulta siti web generici sulla salute, il 6% i siti istituzionali, il 2,4% i social network. In particolare, tra i millennials sale al 36,9% la quota di chi usa autonomamente il web per trovare informazioni su come curare i piccoli disturbi.

Il pericolo è fortemente percepito dagli italiani: il 69% vorrebbe trovare sui siti web e sui social network informazioni certificate sulle piccole patologie e sui farmaci per curarle da assumere senza obbligo della ricetta medica.

È quanto emerge da una ricerca del Censis realizzata in collaborazione con Assosalute e presentata oggi a Roma. Una comunicazione corretta e l’educazione alle scelte di salute emergono come elementi fondamentali per un pieno riconoscimento dei benefici individuali e collettivi dei medicinali di automedicazione.

I piccoli disturbi della salute che peggiorano la vita degli italiani. Complessivamente, sono 49 milioni gli italiani che soffrono di piccoli disturbi che ne compromettono la piena funzionalità quotidiana nelle relazioni sociali e sul lavoro.

Di questi, 17 milioni soffrono con grande frequenza di piccoli disturbi che incidono pesantemente sulla loro vita. Quelli più diffusi sono il mal di schiena (40,2%), raffreddore, tosse, mal di gola e problemi respiratori (36,5%), il mal di testa (25,9%), mal di stomaco, gastrite, problemi digestivi (15,7%), l’influenza (13,9%), i problemi intestinali (13,2%).

Rispetto a dieci anni fa, sono aumentate le persone alle prese con il mal di schiena e i dolori muscolari (dal 32,4% al 40,2% degli italiani), raffreddore, tosse, mal di gola (dal 34,7% al 36,5%), mal di stomaco e gastrite (dal 12,4% al 15,7%), problemi intestinali (dal 5,1% al 13,2%) e congiuntiviti (dall’1,5% al 3%). Sono numeri che descrivono un enorme fabbisogno sanitario che, senza il ricorso ai farmaci da banco, finirebbe per scaricarsi su un Servizio sanitario nazionale già in difficoltà.

Aumenta la tendenza all’automedicazione. Il 73,4% degli italiani è convinto che in caso di piccoli disturbi ci si possa curare da soli. La percentuale è aumentata nel tempo, visto che nel 2007 era pari al 64,1%. Per il 56,5% ci si può curare da sé perché ognuno conosce i propri piccoli disturbi e le risposte adeguate, per il 16,9% perché è il modo più rapido.

Ma nel rispetto dei consigli di medici e farmacisti. Si curano da soli con farmaci da banco, senza bisogno della ricetta medica, 46 milioni di italiani. Di questi, 15 milioni lo fanno spesso. Il ricorso al farmaco è informato, consapevole e maturo.

La prima volta che si assume un farmaco senza obbligo di ricetta per curare un piccolo disturbo, il 70,4% degli italiani chiede consiglio al medico o al farmacista, l’83,1% legge sempre il foglietto illustrativo e il 68,4% afferma di comprenderlo appieno. Trascorsi alcuni giorni dall’assunzione del farmaco, se il disturbo persiste l’88,5% si rivolge al medico e il 36,2% al farmacista. L’automedicazione con i farmaci da banco non è mai uno sregolato libero arbitrio soggettivo, si fonda sempre su indicazioni mediche.

E gli italiani non usano i farmaci come semplici beni di consumo: la spesa pro-capite per farmaci senza obbligo di prescrizione in Italia è pari in media a 40,2 euro all’anno, nel Regno Unito sale a 69,6 euro, in Germania a 80,1 euro, in Francia a 83,1 euro e il valore pro-capite medio tra i grandi Paesi europei è di 65,7 euro. Gli italiani spendono per i farmaci senza obbligo di ricetta il 39% in meno della media degli altri grandi Paesi europei.

I vantaggi dell’autocura. Sono molteplici i benefici del ricorso ai farmaci senza obbligo di ricetta per guarire dai piccoli disturbi. Benefici per i malati, perché 17,6 milioni di italiani sono guariti dai piccoli disturbi grazie a un farmaco da automedicazione almeno in una occasione durante l’anno e così hanno potuto svolgere normalmente le loro attività.

Per il Servizio sanitario nazionale, perché 17 milioni di italiani hanno evitato di scaricare l’onere delle cure sul sistema pubblico grazie ai farmaci da banco. Per l’economia, perché 15,4 milioni di lavoratori sono rimasti sul posto di lavoro proprio grazie all’effetto di un farmaco da automedicazione.

Questi sono i principali risultati della ricerca del Censis «Il valore socio-economico dell’automedicazione», realizzata in collaborazione con Assosalute (Associazione nazionale farmaci di automedicazione, che fa parte di Federchimica), che è stata presentata oggi a Roma da Francesco Maietta, Responsabile dell’Area Politiche sociali del Censis, e discussa da Maurizio Chirieleison, Presidente di Assosalute, Stefano Vella, Presidente dell’Aifa, Marco Cossolo, Presidente di Federfarma, Paolo Misericordia, Responsabile nazionale del Centro Studi della Fimmg, Antonio Gaudioso, Segretario Generale di Cittadinanzattiva, Francesco Brancati, Presidente di Unamsi, e Massimiliano Valerii, Direttore Generale del Censis.

 

*Il Censis, Centro Studi Investimenti Sociali, è un istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964.

A partire dal 1973 è diventato una Fondazione riconosciuta con Dpr n. 712 dell’11 ottobre 1973.

Troppe auto-diagnosi con Google, attenzione VOI non siete medici!

«Coloro che si sono già diagnosticati da soli tramite Google, ma desiderano un secondo parere, per cortesia controllino su yahoo.com».

Una frase scherzosa. Che circola su Internet da un po’ di tempo. Ma che diventa un caso se ad appenderla davanti al proprio ambulatorio è un medico dell’Istituto dei tumori di Milano, primo Irccs oncologico italiano per attività scientifica e produzione clinica, uno dei templi della lotta ai tumori nel nostro Paese. È accaduto pochi giorni fa.

Un fenomeno sempre più diffuso

Chi l’ha affissa ha pensato solo di avvertire in modo «leggero» i propri pazienti dei rischi che si corrono ad affidarsi alla rete per diagnosticarsi da soli malattie serie come i tumori, salvo poi arrivare troppo tardi a chiedere un parere a un esperto vero. Ma, al di là delle modalità irrituali, l’idea del camice bianco milanese esprime un disagio vero e una difficoltà importante. «Lo confermo» spiega Enzo Lucchini, presidente dell’Istituto dei tumori di Milano. «Il problema esiste ed è grave, anche se devo chiarire che l’iniziativa è stata presa a titolo personale, senza chiedere alcun permesso, e che dopo la pubblicazione sul sito del vostro giornale il foglio è stato evidentemente rimosso dall’interessato, visto che non l’abbiamo trovato».

Non poteva essere altrimenti in effetti, visto che il medico avrebbe rischiato probabilmente una discreta tirata d’orecchie dopo tanta inaspettata pubblicità. «L’iniziativa, anche se dissacrante, di sicuro non voleva in nessun modo colpevolizzare i malati, ma aiutarli» precisa il presidente dell’Int. «Oggi l’88 per cento delle persone va a cercare informazioni per la propria salute sui siti Internet e quasi la metà si affida alla prima pagina dei motori di ricerca.

Ma una autodiagnosi, specie nel caso di malattie come quelle che curiamo qui, è pericolosa». Anche se è giusta? «Può accadere che sia giusta, ma può capitare anche che il responso del web sia falsamente rassicurante e ritardi quindi l’inizio di cure necessarie, oppure che sia ansiogeno senza motivo e comporti un intasamento inutile dell’ospedale».

Però sarebbe ingenuo pensare di poter evitare questi problemi. «È vero — conclude Lucchini — ed è per questo, per esempio, che abbiamo sottoscritto un decalogo dei giornalisti scientifici contro le fake-news o che abbiamo preso altre iniziative per migliorare la comunicazione fra medici e pazienti e, più in generale fra l’istituto e l’esterno.

Speriamo che questa vicenda un po’ curiosa possa essere un seme che aiuti a riflettere e a far germogliare nuove idee per arginare questo genere di difficoltà». Anche perché, diciamolo, il dottor Google non mai preso la laurea e pure il dottor Yahoo non ha uno straccio di pezzo di carta, al massimo uno straccio di bit.

 

La prima mappa del ‘lato oscuro’ del web. ”Così odio, insulti e fake news viaggiano online

Lo studio dell’University College London ricostrusce le sorgenti e la diffusione dell’odio politico, razziale e antifemminista su internet a partire da 4chan, uno degli ”angoli più bui della Rete”. Nel team l’italiano Gianluca Stringhini: ”La violenza verbale amplificata via YouTube. Poi vengono Wikipedia e Twitter”

ROMA – “Lo studio contiene un linguaggio che può disturbare il lettore”. Non è una frase che si legge di frequente in un paper scientifico. Ma questa volta nel mirino dei ricercatori è finito il ventre oscuro di internet. Quel pozzo pieno di miasmi che vomita ingiurie, notizie false, incita all’odio, conia insulti razzisti, confonde le donne con la pornografia.

“Volevamo capire come questo linguaggio si propaga su internet. E siamo partiti dal sito 4chan” spiega Gianluca Stringhini, 33 anni, laurea in informatica a Genova e dottorato a Santa Barbara, università della California. “Ho fatto una tesi sul cybercrime. Allora non esistevano le fake news”. Ma il mondo di internet degenera in fretta. Oggi Stringhini è assistant professor all’University College London e con un gruppo di colleghi ha avuto l’idea di cercare quali sono le sorgenti dell’odio politico, razziale e antifemminista su internet.

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“Abbiamo seguito 4chan.org per vari mesi durante la campagna elettorale e i primi mesi di presidenza di Donald Trump” spiega. “Poi abbiamo studiato come fake news, insulti e incitamenti all’odio debordano su Youtube, Facebook e Twitter. Lungo il percorso vengono amplificati, a volte anche di molto”. La ricerca di Stringhini e dei suoi colleghi, di cui parla anche la rivista Nature, è pubblicata sul sito arXiv (.pdf).

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Non è un caso che come punto di partenza si sia scelto 4chan, il sito di discussioni dell’alt-right che sostiene Donald Trump. Qui l’offesa “nigger” compare 120 volte all’ora. Alla metà della velocità viaggiano “faggot” e “retard”. “E’ uno degli angoli più bui del web” scrivono i ricercatori. “E anche uno dei più influenti generatori della cultura di internet”, zeppo “di odio, pornografia, provocazioni e perfino confessioni di omicidio”. Da qui, dove ognuno può scrivere ciò che vuole senza fornire la sua identità sapendo che tutto verrà cancellato nel giro di poche ore, è partito tra l’altro il movimento anonymous. Stringhini e i suoi colleghi hanno scelto una particolare sezione, chiamata “politically incorrect” e hanno selezionato i messaggi con termini che esprimevano “xenofobia, razzismo e in generale odio”. In due mesi e mezzo, fra giugno e settembre 2016, ne hanno raccolti 8 milioni.

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“Soprattutto – spiega il ricercatore – ci interessava capire come i contenuti di 4chan si riverberassero sugli altri siti”. In particolar modo la corrente di odio e violenza prende la direzione di YouTube. Subito dopo vengono Wikipedia e Twitter. Più distanti Wikileaks e DonaldJtrump.com. Qui i messaggi violenti conservano l’anonimato, ma non il loro carattere effimero. Gli stessi membri della comunità alt-right spesso copiano quei link e li ripubblicano su 4chan, come in un cerchio.

“A volte i frequentatori di politically incorrect prendono di mira una figura contraria alle loro posizioni” spiega ancora Stringhini. “Inizia allora un bombardamento violentissimo su Youtube, che si chiama raid e arriva a costringere le vittime a cancellare il loro nome dal web”. Il grido di battaglia, su 4chan, è il messaggio “you know what to do”: sai cosa devi fare.

Scherzando, Stringhini racconta che lui e i colleghi dovevano alzarsi periodicamente dal computer e distrarsi guardando foto di gattini. “Non fa bene stare a lungo su siti come 4chan. Non dico che finivamo per convincerci di quel che leggevamo, ma di certo ne sentivamo l’influenza pur essendo solo osservatori esterni”. Il 12% dei messaggi di “politically incorrect” conteneva uno dei termini razzisti o violenti usati dai ricercatori come filtro, mentre su Twitter la percentuale non supera il 2%.

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Chi ci sia dietro ai messaggi virulenti di 4chan sarà oggetto dei prossimi studi. “A volte avevamo l’impressione che non fossero semplici individui, ma partiti o movimenti elettorali. Alcuni post arrivavano dall’estero. Abbiamo studiato soprattutto insulti e fake news di contenuto politico, ma crediamo che lo stesso meccanismo si metta in azione anche per argomenti diversi. Prima si individua un nemico, poi lo si attacca con un raid fino a quando non si riesce a cacciarlo dal web”.

Questa notizia è clamorosa (ma falsa): è la bufala bellezza

articolo preso da:  IL MAGAZINE del Sole 24 Ore

scritto da Francesco Costa

Se avete letto i giornali negli ultimi mesi, sapete probabilmente che a febbraio l’Egitto ha invaso la Libia, che il governo Renzi vuole depenalizzare il maltrattamento degli animali e che la corruzione costa all’Italia ben sessanta miliardi di euro ogni anno. Peccato che niente di tutto questo sia vero.

Così come non è vero che i tifosi del Feyenoord abbiano stampato delle magliette con scritto “Vi accoltelliamo” rivolto ai romanisti, che nel video di un’ecografia pubblicato online si veda un feto battere le mani a tempo di musica, che secondo un’equazione matematica il 19 gennaio sia il giorno più triste dell’anno e che François Hollande abbia operato in Francia un gigantesco taglio ai costi della politica.

Gli errori capitano a tutti, ma la diffusione di notizie imprecise o apertamente false sui media ormai è un fenomeno quotidiano: la più grande patologia del nostro tempo tra quelle di cui i giornali non parlano mai. Le ragioni di questo fenomeno si possono intuire con facilità, e sono discusse quotidianamente anche tra gli addetti ai lavori a mensa o durante i vari festival del giornalismo: la verifica delle fonti superficiale se non inesistente, la ricerca di visibilità e lettori sparandola grossa, l’interesse smodato del pubblico per notizie assurde, morbose o in grado di suscitare reazioni emotive, la necessità di fare i conti con sempre maggiori richieste e minori risorse in tempi di tagli e crisi del settore.

Le smentite di queste bufale, quando e se ci sono, non trovano mai la stessa enfatica pubblicazione e virale diffusione della balla originaria, che intanto è tracimata e continua a vivere di vita propria: diventa un argomento di discussione nei talk show e davanti alla macchinetta del caffè, mentre sui giornali magari è stata a malapena derubricata a “giallo”.

La prima conseguenza è la perdita di credibilità dei giornali e di chi li fa: secondo un recente studio Edelman – che non ha sorpreso nessuno – la maggioranza assoluta degli italiani dichiara di non fidarsi dei media (un paradosso interessante, visto che la pubblicazione di queste “notizie” è spesso giustificata con l’aria che tira e con la necessità di attrarre lettori anche a costo di usare qualche trucco del mestiere).

Ma c’è una seconda conseguenza ancora più inquietante e pericolosa: oggi, tra le persone – le persone normali, non i fuori di testa che credono ai complotti sull’11 settembre e ai rettiliani – esiste di fatto una realtà parallela. Se l’unica democrazia davvero compiuta è una democrazia informata, le notizie false indeboliscono la democrazia: costruiscono paradigmi culturali e creano percezioni che si riflettono nella vita di tutti i giorni, dalla scelta del partito da votare a quella dell’università da frequentare.

Nella realtà parallela delle notizie false, per esempio, durante gli anni peggiori della crisi economica molti hanno descritto l’Islanda come il modello da seguire: smettere di pagare il debito e disobbedire alle crudeltà suggerite dalla troika. Mentre le redazioni dei talk show mandavano inviati in Islanda per raccontare questa storiella nell’intervallo tra una lite e l’altra, la realtà faceva il suo corso: l’Islanda pagava il suo debito, addirittura nazionalizzava tre grandi banche pur di evitarne il fallimento e riceveva con gratitudine un salvifico prestito del Fondo monetario internazionale; ma qualche partito cavalcava la falsa storia islandese criticando quelli che non trovavano praticabile quella strada inesistente.

Tra le storie di questo genere, però, la più esemplare è quella sul calcolo del costo della corruzione in Italia. La cifra abnorme che circola da anni – sessanta miliardi di euro – viene ripetuta allo sfinimento durante comizi e talk show e a un certo punto è stata rilanciata persino dalla Commissione europea e dalla Corte dei Conti, ma è falsa. Circola dal 2004, viene da un calcolo grossolano operato sulla vaga stima della Banca mondiale per cui la corruzione incide per il 3-4 per cento del Pil mondiale e soltanto l’anno scorso, dopo averla riproposta innumerevoli volte, i giornali hanno cominciato a diffidarne.

Questo però non ha frenato la sua diffusione, perché i sessanta miliardi sono ormai un pezzo della realtà parallela: la presidente della Camera l’ha citata qualche mese fa in un’occasione formale, persino il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, l’ha menzionata maldestramente nel suo nuovo libro. Nel frattempo, la percezione della corruzione nelle istituzioni secondo gli italiani sfiora il 90 per cento (!), dice l’Ocse; e secondo i dati di Transparency International gli italiani credono che in Italia ci sia più corruzione che a Cuba o in Ruanda.

Conseguenze della realtà parallela: davanti a una situazione del genere, non c’è legge anticorruzione che possa essere considerata sufficiente. Nessuno vuole minimizzare l’impatto di un problema grave come la corruzione, ma se le buone intenzioni sono un criterio allora vale tutto: invece che sessanta miliardi facciamo cento, o mille. Per non parlare di tutto il ricchissimo filone delle bufale collegate all’avanzata dell’Isis in Medio Oriente: i carichi di arance infettati col virus dell’Hiv, il terrorista che parla italiano in un video, la guerra batteriologica imminente. «L’Isis si prepara ad attaccarci con il virus dell’ebola», ha scritto un grande giornale italiano in un articolo privo di fonti affidabili che è ancora disponibile online.

Chi vuole fare soldi ha capito da tempo come sfruttare la realtà parallela delle bufale. Una popolare compagnia aerea low cost ha trovato da anni il modo di far parlare di sé senza spendere un euro: diffondere annunci assurdi e improbabili che vengono puntualmente ripresi e rilanciati da redazioni assetate di strano-ma-vero. Negli anni abbiamo letto dell’imminente arrivo di tariffe più alte per i bambini rumorosi e per i ciccioni, di prossime introduzioni di voli da dieci euro per gli Stati Uniti, di aerei con i posti in piedi o con i bagni a pagamento o con un solo pilota (ho la sensazione che quest’ultima non sarà più riproposta).

È una specie di cinica complicità: i giornali racimolano un po’ di clic con notizie false che attirano molto interesse, la compagnia aerea si fa pubblicità gratis.

Poi ci sono i professionisti: quelli che hanno fatto delle balle un business. Da qualche anno ci sono siti internet mascherati da testate giornalistiche – persino nei nomi, che ricalcano quelli di famose testate: La Rebubblica o Il Solo 24 Ore – che diffondono notizie false ma verosimili, inventate ma potenzialmente credibili, e con un forte interesse popolare: la morte di un personaggio famoso che invece è vivo, l’imminente ritorno della leva militare obbligatoria, la decisione di destinare case popolari e abbondanti sussidi agli immigrati irregolari.

Alcuni si mascherano da siti satirici, ma di comico hanno poco: titoli come «Arrestato Matteo Salvini», «Vesuvio, esplosione imminente?» o «Tracce di feci nei gelati», per esempio, sono fatti per attirare clic e circolare tra utenti creduloni, ingenui o inesperti. È esattamente quello che succede. Ogni articolo viene letto potenzialmente decine di migliaia di volte, grazie alla diffusione istantanea e virale che questo genere di notizie innesca sui social network: e gli annunci pubblicitari fanno sì che quelle visite diventino soldi.

Catena Umana, per esempio, è il sito che qualche mese fa ha pubblicato la notizia falsa secondo cui Greta Ramelli e Vanessa Marzullo – le due cooperanti italiane sequestrate in Siria – avevano detto ai pm di Roma di aver fatto “sesso consenziente” con i loro rapitori durante la prigionia: una bufala di cui si è parlato molto anche perché Maurizio Gasparri ha deciso di rilanciarla sui social network. Vincenzo Todaro, che vive a Parma e gestisce il sito – lo definisce «di informazione ma non di giornalismo» – dice che il loro metodo è prendere una notizia vera, inserire qualche dettaglio inventato e abbinare un titolo forte e l’immagine giusta.

«Nel caso di Greta e Vanessa abbiamo preso un articolo esistente online e abbiamo aggiunto praticamente solo cinque parole, ma quelle cinque parole ci hanno fatto fare il giro del web». Quando quella notizia falsa è diventata un piccolo caso, gli annunci pubblicitari hanno fatto guadagnare al sito e ai suoi gestori «anche 1.000-2.000 euro al giorno». Catena Umana pubblica moltissimi articoli ogni giorno, «nei periodi più intensi anche uno ogni quarto d’ora». Non tutti generano quegli introiti, ma fate voi i conti.

Quello che rimane, alla fine della fiera, è un circolo vizioso: la perdita di credibilità e autorevolezza dei media tradizionali rende sempre più persone sensibili ai richiami della cosiddetta “controinformazione” e dei siti internet che promettono di raccontare “quello che gli altri non dicono”; il meccanismo autogratificante della condivisione dei contenuti sui social network e la paranoia complottista amplificano la diffusione delle bufale pubblicate da questi siti.

Queste bufale a loro volta diventano leggende metropolitane, oppure vengono rilanciate da un vicepresidente del Senato e diventano mainstream; i media tradizionali affrontano questa nuova concorrenza con l’acqua alla gola e per tentare di tenere il passo indeboliscono – invece che rafforzare – controlli, verifiche, attenzione, sobrietà, scetticismo; il tutto fa allargare la realtà parallela fino a farla diventare l’unica realtà, il panorama invisibile, come l’acqua dei pesci rossi di David Foster Wallace. Siccome il mondo in cui viviamo non ci piace, abbiamo deciso di inventarcene uno peggiore.

Una iniziativa di Laura Boldrini contro le bufale, che dobbiamo sostenere tutti

Riporto qui il testo integrale dell’appello, firmato dalla stessa Boldrini e da altri personaggi noti, della rete e del mondo civile, tra i quali Paolo Attivissimo.

Appello per il diritto a una corretta informazione.

Essere informati correttamente è un diritto. Essere disinformati è un pericolo.

Invito tutti i lettori del blog LaParolaDigitale a visitare il sito www.bastabufale.it e sottoscrivere l’ iniziativa

 

Ho deciso di lanciare questo appello perché ritengo che il web sia un importante strumento di conoscenza e democrazia. Ma spesso anche luogo di operazioni spregiudicate, facilitate dalla tendenza delle persone a prediligere informazioni che confermino le proprie idee. In rete sono nati fenomeni nuovi, come le fabbriche di bufale a scopo commerciale o di propaganda politica e certo giornalismo “acchiappaclick”, più interessato a incrementare il numero dei lettori anziché a curare l’attendibilità delle fonti.

Le bufale creano confusione, seminano paure e odio e inquinano irrimediabilmente il dibattito.

Le bufale non sono innocue goliardate. Le bufale possono provocare danni reali alle persone, come si è visto anche nel caso dei vaccini pediatrici, delle terapie mediche improvvisate o delle truffe online.

Questo è il tempo della responsabilità. È necessario mobilitarsi, ciascuno di noi deve fare qualcosa per contrastare la disinformazione e contribuire a tutelare la libertà del web e la dignità di chi utilizza questo spazio che offre enormi opportunità culturali, relazionali ed economiche.

Non si tratta né di bavagli né di censure. Si tratta di reagire e affrontare un problema che ci riguarda tutti. Firmare questo appello significa fare la propria parte e dare il proprio contributo. Alcuni ambiti, poi, sono più esposti di altri e hanno una maggiore responsabilità: la scuola in primis, ma anche l’informazione, le imprese, i social network. A chi vi opera chiediamo uno sforzo aggiuntivo.

FIRMA PER DIRE NO ALLE BUFALE, SÌ ALLA CORRETTA INFORMAZIONE

Laura Boldrini
Presidente della Camera dei deputati
1. SCUOLA E L’UNIVERSITÀ
La scuola e l’università, che sono il motore primo per creare gli anticorpi necessari a contrastare la disinformazione, devono farsi protagoniste di un’azione culturale che tenda a sviluppare l’uso consapevole di Internet. Insegnare a usare gli strumenti logici e informatici per distinguere tra fonti affidabili o meno dovrebbe essere una priorità del sistema educativo, nell’obiettivo di sviluppare senso critico e cultura della verifica.

2. INFORMAZIONE
In questo momento è di primaria importanza che i giornalisti e gli operatori dell’informazione aumentino lo sforzo del fact checking, del debunking – l’attività che consente di smascherare le bufale – e della verifica delle fonti. Così come gli editori dovrebbero, attraverso un investimento mirato, dotare le redazioni di un garante della qualità che sia facilmente accessibile ai cittadini, come già avviene in alcune testate.

3. IMPRESE
L’impegno passa anche per le aziende. Le loro inserzioni pubblicitarie non dovrebbero comparire su siti specializzati nella creazione e diffusione di false notizie, per non finanziare anche involontariamente la disinformazione e per non associare i propri prodotti a questi danni sociali.

4. SOCIAL NETWORK
In quest’ottica un ruolo cruciale lo possono svolgere i social network, che dovrebbero assumersi le loro responsabilità di media company e indirizzare le loro politiche verso una maggiore trasparenza. Per contrastare fake news e discorsi d’odio è essenziale incrementare la collaborazione con le istituzioni e le testate giornalistiche, così come un maggiore investimento in risorse umane e tecnologie adeguate a fronteggiare il problema.

5. CULTURA, SPORT, SPETTACOLO
Ai protagonisti del mondo della cultura, dello sport e dello spettacolo chiedo, in quanto personalità capaci di raggiungere un vasto numero di persone, di spendersi contro le false notizie e la diffusione dell’odio.

Primi firmatari
Paolo Attivissimo
Michelangelo Coltelli
David Puente
Walter Quattrociocchi